sabato 15 dicembre 2012

Estratto: "La bambina di neve" di Nathaniel Hawthorne

Salve a tutti, scusate l'assenza prolungata, dovuta agli impegni vari, ma il Café ricordatelo è sempre qui, ci sono tanti passi da leggere che non sono mai stati commentati, quindi anche quando non posto cose nuove non sentitevi soli o abbandonati ^.^
Con l'arrivo dell'inverno il Café Littéraire deve necessariamente riaprire i battenti, un posto caldo e accogliente dove leggere e commentare insieme i vari libri, è una tentazione troppo grande per fuggire dal freddo che c'è lì fuori!
Oggi voglio allietarvi con una storia, recentemente ho postato favole o racconti, ma non vedete questa come una discriminazione verso gli adulti, perché non lo è, anzi, molte storie apparentemente per bambini contengono invece messaggi molto forti per gli adulti.
Le storie vengono scritte in modo che siano piacevoli anche agli occhi dei bambini, che con la loro spiccata sensibilità riescono a cogliere le metafore e a carpirne gli insegnamenti, ma non per questo devono essere sottovalutate dai "grandi".
Dato il freddo degli ultimi giorni, vi  posto una storia perfettamente in tema.
"La bambina di neve" di Nathaniel Hawthorne.
E' un racconto molto delicato, inizialmente sereno e gioioso, che descrive la speranza e la fede dei bambini.
Il loro modo di credere ciecamente in quello che fanno, tanto da riuscire in un'impresa impossibile.
Nella seconda parte ci mette invece di fronte al mondo degli adulti, cinico, in cui si crede solo a quello che si conosce, e in cui si è così forti delle proprie convinzioni da negare persino l'evidenza.
In questo racconto mi riconosco particolarmente con la figura della mamma dei due bambini.
Sono cresciuta, ma non smetto di credere, non smetto di sognare.
Ora vi lascio al racconto, leggetelo e ditemi cosa ne pensate.
Alla prossima ^_^


*   *   *    *   *

In un rigido pomeriggio d’inverno due bambini chiesero alla mamma il permesso di uscire a giocare con la neve fresca. La bambina veniva chiamata Violetta per la sua natura dolce, e il suo fratellino Papavero per le sue guance perennemente infiammate. Il padre dei due bambini, il signor Lindsey, negoziante di ferramenta, era una pasta d’uomo ma privo assolutamente di fantasia e con una testa dura e forse vuota come le pentole di ferro che vendeva.

La mamma invece conservava un tocco di poesia sopravvissuto alla sua immaginosa giovinezza.

Davanti alla casa c’era un piccolo giardino con un pero, due susini e alcuni cespi di rose; ma in quel tempo il gelo formava sui rami spogli una specie di fogliame invernale, con qualche ghiacciolo che pendeva come un frutto.
«Facciamo un fantoccio di neve, Papavero?», chiese Violetta. «Lo costruiremo come una bambina: sarà la nostra sorellina con cui potremo giocare per tutto l’inverno.»
«Oh, sì! E anche la mamma sarà contenta», disse Papavero.
«Certo, ma non dovrà farla entrare nel salotto riscaldato, perché alla nostra sorellina di neve il caldo non piacerà.»
Violetta assunse la direzione dell’impresa e Papavero le procurava il materiale mentre lei, con le sue dita sensibili, dava forma alle parti più delicate del fantoccio.
Non sembrava però che la figura nascesse modellata dai bambini, ma piuttosto che andasse formandosi da
sé, mentre loro le giocavano intorno, chiacchierando entusiasti.
«Papavero! Portami un po’ di quella neve bianchissima, non ancora calpestata. Sto facendo il petto della nostra sorellina, e dev’essere di neve pura.»
«Com’è bella!», esclamò Papavero.
«Sì, non avrei mai pensato che riuscisse così carina. Portami ora quelle leggere ghirlande di neve posate sui rami più bassi del pero: devo fare i riccioli alla nostra sorellina di neve.»
Dal salotto, la mamma sorrideva alle frasi dei bambini.
«Avremo una bellissima compagna di giochi, quest’inverno!», esclamò a un certo punto Violetta.
«Oh, sì!», approvò entusiasta Papavero. «E io l’abbraccerò e le farò bere un po’ del mio latte caldo!»

«No», diceva saggiamente Violetta, «il latte caldo non le farebbe affatto bene. I bambini di neve non mangiano che ghiaccioli.»

Seguì un indaffarato silenzio.
«Guarda, Papavero!», esclamò a un tratto Violetta tutta eccitata.
«Un riflesso di quella nuvola le ha illuminato le guance, e le è rimasto acceso in viso.»
«Oh, Violetta, ma guardale i capelli. Splendono come oro!»
«È naturale», commentò tranquilla Violetta. «Hanno imprigionato l’ultimo raggio di sole. È quasi finita, ormai. Ma le labbra devono essere rosse. Forse diventeranno rosse, se le daremo un bacio.»
La mamma udì due schiocchi, come se i bambini avessero davvero baciato il fantoccio sulle labbra gelide.
«Mamma, mamma!», gridarono. «La nostra sorellina di neve è terminata e ora gioca in giardino con noi! Affacciati a vedere!»
La madre guardò oltre i vetri: la figuretta esile di una bambina candidamente vestita, con le guance rosse e i riccioli d’oro, correva nel giardino con i suoi figli. Sembrava conoscerli da sempre.
La signora pensò che fosse la figlia di qualche vicino, e aprì la porta per invitarla a entrare. Ma sulla soglia si arrestò. Fu colta addirittura dal dubbio se si trattasse di una bambina reale o di un mulinello leggero di neve trasportato per il giardino dal vento gelido.
E poi quale madre avrebbe fatto indossare alla sua bambina quell'abito sottile per mandarla a giocare in un pomeriggio d’inverno?
Ai piedi la bimba portava solo un delicato paio di pianelle bianche, tuttavia non sembrava soffrirne e danzava leggera, con le guance arrossate e i riccioli al vento.
«Violetta, tesoro», chiese a bassa voce la madre, turbata. «Come si chiama quella bambina e dove abita?»
«Come!», rise Violetta all'idea che la madre non comprendesse una verità tanto semplice. «Ma è la nostra sorellina che abbiamo appena finito di costruire!»
Uno stormo di uccelletti invernali scese nell'aria grigia e si mise a volteggiare intorno al capo della bambina di neve; lei tese loro le mani ed essi andarono a posarsi sui suoi dieci ditini, affollandosi e scacciandosi l’un l’altro con un gran sbattere d’ali, così come gli uccelletti d’inverno usano giocare nelle tempeste di neve.
In quel momento il cancello si spalancò e il padre dei bambini entrò avvolto in un mantello di lana blu, con un berretto di pelliccia che gli copriva le orecchie, e smisurati guanti alle mani.
Notò subito la piccola visitatrice candida che volteggiava per il giardino come una danzante ghirlanda di neve e uccelli.
«Chi è questa povera bambina con una madre che la manda in giro in pantofole?», chiese inorridito il buon uomo.
«Ne so quanto te», rispose la moglie. «Violetta e Papavero», aggiunse sorridendo confusa, «insistono nel dire che è un fantoccio di neve che loro hanno costruito.»

E qui gettò un’occhiata verso il punto dove i bambini avevano lavorato nel pomeriggio. Era tutto piano e deserto, rimanevano solo le impronte dei piccoli passi intorno a uno spazio vuoto.

«Perché, non ti piace la nostra sorellina di neve?», chiese ansioso Papavero.
«Che sciocchezze, bambini! Quella poveretta non deve rimanere all'aperto un minuto di più. Portiamola nel salotto e riscaldiamola bene. Io intanto chiederò informazioni ai vicini, e se è necessario manderò in giro un banditore per dare l’avviso di una bambina smarrita.»
Ma Violetta e Papavero gli afferrarono supplichevoli le mani. «Papà, è la nostra bambina di neve, non può vivere se non respira il vento gelido! Lo odia, il fuoco!»
«Ma che stupidaggine!», esclamò l'onest'uomo infastidito da quella ostinazione. «A casa, subito! Se non me ne occupo io, questa si prenderà un raffreddore da morire.»
«Mio caro», intervenne timidamente la madre, «c’è qualcosa di molto strano in tutto questo. Mi giudicherai sciocca, ma… non può essere che qualche angelo abbia voluto premiare la fede con cui i nostri bambini si sono messi all’opera? Non può essere avvenuto un… miracolo? No, non ridere di me!»
«Mia cara», le sorrise il marito, «sei ancora una bambina come Violetta e Papavero!»
E premurosamente il bravo signor Lindsey si accostò alla personcina nivea mettendo a tacere le acute suppliche dei suoi figli. Al suo avvicinarsi gli uccelletti presero il volo, mentre la damina bianca scuoteva il capo come per dire: «Non mi toccate, per favore!».
Poi si mise a fuggire, e inseguendola il signor Lindsey inciampò e cadde, per rialzarsi con tanta neve attaccata al cappotto da parere lui stesso un gelido ed enorme fantoccio di neve.
Alla fine riuscì a bloccarla contro una siepe, che a quel contatto rifulse come una stella, ma di una luce fredda, piuttosto come un ghiacciolo al lume di luna.
«Ti ho presa finalmente, pazzerella!», esclamò il signor Lindsey.
«Infileremo i tuoi piedini gelati in un bel paio di calze di lana e ti avvolgeremo in uno scialle caldo. Hai un nasino così bianco, che sembra congelato.»
E con un sorriso protettivo prese per mano la bambina di neve e la condusse in casa. Lei lo seguì avvilita, non più lucente, ma opaca e languida come il disgelo.
Violetta e Papavero intanto, con gli occhi pieni di lacrime, continuavano a implorare il padre di non uccidere
la loro sorellina di neve.
«Ma non sentite che manine fredde ha? Volete che muoia assiderata?»
Mentre saliva i gradini la moglie, trepidante, aveva esaminato meglio la bambina sconosciuta e sul suo collo le era parso di scorgere ancora l’impronta delicata delle dita di Violetta.

«Marito mio!», esclamò spaurita. «Dopotutto potrebbe davvero essere fatta di neve!»

«Ci credo», rispose il marito trascinando in casa la piccola creatura, «è tutta un ghiacciolo, povera piccina. Ma un buon fuoco la rimetterà a posto!»
L’uomo di buon senso pose la bambina avvilita, sempre più avvilita, davanti a una stufa ben colma di carbone, su cui bolliva l’acqua di un pentolino. Le tende rosse e il tappeto della stessa tinta accentuavano la sensazione di calore.
«Fa’ come fossi a casa tua, cara bambina», disse l’uomo soddisfatto stropicciandosi le mani.
La damina candida stava lì tristissima, investita dall'alito caldo come da una pestilenza. Il suo sguardo nostalgico andava alle finestre, attraverso le quali splendeva il nitore della neve e la gelida intensità delle stelle.
Inutilmente il vento tamburellava il suo richiamo sui vetri.
«Su, moglie, porta le calze e lo scialle, e di’ a Dora di far bollire il latte. E voi due tenete allegra la vostra amichetta, non vedete come sta a disagio? Io intanto farò un giro in cerca di notizie.»
Il signor Lindsey era appena uscito e s’era rialzato il bavero del cappotto, quando udì il richiamo disperato dei bambini, mentre la moglie, col ditale, batteva ai vetri della finestra.
«È ormai inutile cercare i genitori», balbettava la signora.
«Te l’avevamo detto», singhiozzavano Violetta e Papavero.
«Hai voluto portarla in casa, e ora la nostra bella sorellina di neve si è liquefatta!»
Piangevano talmente, che il signor Lindsey temette per un istante che stessero per liquefarsi anche loro.
«Ecco quel che rimane di lei!», disse Violetta singhiozzando, mentre indicava al padre perplesso una pozza d’acqua davanti alla stufa.
«Cattivo papà!», disse per la prima volta nella sua vita Papavero, agitando il suo piccolo pugno davanti all’uomo. «L’hai uccisa tu!»
E la stufa di ferro, attraverso il finestrino nello sportello, sembrava fissare il signor Lindsey come un trionfante demonio dagli occhi di fuoco.
«Sarà scappata», mormorò cupo il signor Lindsey. «Moglie!», si riprese. «Guarda quanta neve hanno portato in casa i bambini, attaccata alle scarpe. Ha formato quasi un lago, qui davanti alla stufa!
Chiama Dora, che l’asciughi.»