sabato 3 dicembre 2011

Estratto: "Il piccolo Principe" di Antoine de Saint-Exupéry

Lo scorso anno, il giorno dell'epifania su rai 2 trasmisero l'anteprima del film di animazione "Il Piccolo Principe" (Le Petit Prince). Quest'anno sempre su rai 2 a partire dal 10 dicembre, ogni sabato e domenica mattina alle 8:00  varrà trasmessa l'intera serie.
Dopo aver visto l'anteprima lo scorso anno e aver letto più o meno la trama,  devo dire che non ne sono assolutamente rimasta soddisfatta, anzi! Non mi è piaciuta la storpiatura di una storia, che era di per sé perfetta così come era stata concepita dal suo autore, mi è quindi venuta nostalgia dell'originale e perciò oggi, vi accolgo nel mio Café, per leggere insieme  un classico della letteratura, un libro che ha tutt'oggi la capacità di affascinare grandi e piccini, attraverso profonde metafore sull'amore e sulla vita.
Così oggi vi propongo il primo capitolo,  che per chi non lo ha letto sono sicura sarà fonte di curiosità, e vi farà venire voglia di leggere il seguito, e vi assicuro che merita! Perché questo libro, apparentemente scritto per bambini, ha in realtà molto da insegnare, soprattutto agli adulti.
Vi lascio con il dolce che avete ordinato ^_^ e vi auguro buona lettura, il libro è lì proprio sotto il piatto XD


 *   *   *    *   *




CAPITOLO 1

Un tempo lontano, quando avevo sei anni, in un libro sulle foreste primordiali, intitolato “Storie vissute della natura”, vidi un magnifico disegno.  
Rappresentava un serpente boa nell’atto di inghiottire un animale.  
Eccovi la copia del disegno. 



C’era scritto: “I boa ingoiano la loro preda tutta intera, senza masticarla.  
Dopo di che non riescono più a muoversi e dormono durante i sei mesi che la digestione richiede”.  
Meditai a lungo sulle avventure della jungla.  
E a mia volta riuscii a tracciare il mio primo disegno.  
Il mio disegno numero uno. Era così:  


Mostrai il mio capolavoro alle persone grandi, domandando se il disegno li spaventava.  
Ma mi risposero: “ Spaventare? Perché mai, uno dovrebbe essere spaventato da un 
cappello?” .  
Il mio disegno non era il disegno di un cappello.  
Era il disegno di un boa che digeriva un elefante.   
Affinché vedessero chiaramente che cos'era, disegnai l’interno del boa.  
Bisogna sempre spiegargliele le cose, ai grandi.  
Il mio disegno numero due si presentava così:  


Questa volta mi risposero di lasciare da parte i boa, sia di fuori che di dentro, e di applicarmi 
invece alla geografia, alla storia, all'aritmetica e alla grammatica.  
Fu così che a sei anni io rinunziai a quella che avrebbe potuto essere la mia gloriosa carriera 
di pittore.   
Il fallimento del mio disegno numero uno e del mio disegno numero due mi aveva 
disarmato.  
I grandi non capiscono mai niente da soli e i bambini si stancano a spiegargli tutto ogni volta.  
Allora scelsi un’altra professione  e imparai a pilotare gli aeroplani.   
Ho volato un po' sopra tutto il mondo: e veramente la geografia mi è stata molto utile.  
A colpo d’occhio posso distinguere la Cina dall'Arizona, e se uno si perde nella notte, questa 
sapienza è di grande aiuto.  
Ho conosciuto molte persone importanti nella mia vita, ho vissuto a lungo in mezzo ai 
grandi.  
Li ho conosciuti intimamente, li ho osservati proprio da vicino.  
Ma l’opinione che avevo di loro non è molto migliorata.  
Quando ne incontravo uno che mi sembrava di mente aperta, tentavo l’esperimento del mio 
disegno numero uno, che ho sempre conservato.   
Cercavo di capire così se era veramente una persona comprensiva.  
Ma, chiunque fosse, uomo o donna,  mi rispondeva: “È un cappello”.  
E allora non parlavo di boa, di foreste primitive, di stelle.  
Mi abbassavo al suo livello. Gli parlavo di bridge, di golf, di politica, di cravatte.  
E lui era tutto soddisfatto di avere incontrato un uomo tanto sensibile.  

Così termina il primo capitolo del libro, man mano ne posterò altri, quindi tornate presto!! :**

lunedì 14 novembre 2011

Estratto: "Chi ha spostato il mio formaggio?" di Johnson Spencer

Oggi si gela! E quale giornata migliore per un libro e un qualcosa che ci riscaldi il cuore e il pancino? *Q*__
Qualche settimana fa la mia sorellina Piccopì mi ha linkato questa storia, che può sembrare per bambini leggendone solo l'inizio, ma è in realtà una favola per grandi.
E' una metafora della vita, ci dice che se vogliamo fortemente qualcosa, e se vogliamo cambiare la nostra vita, non dobbiamo adagiarci sugli allori, ma agire ed essere noi gli artefici del nostro destino! 
Rischiare, e cambiare! Leggetela ve la consiglio, sia perché è simpatica, ma anche perché può aiutarvi a vedere le cose in maniera diversa.  
La storia narra di  una rimpatriata tra compagni di scuola,durante la quale ognuno di essi rivela come è cambiata la propria vita con il passare degli anni. Uno di loro racconta una storia che lo ha aiutato nell'affrontare i cambiamenti e le difficoltà che ha incontrato nel suo cammino. La storia ha come protagonisti quattro personaggi, due topini  Nasofino (Sniff) e Trottolino (Scurry), e i due gnomi Tentenna (Hem) e Ridolino (Haw) ed è ambientata in un labirinto tortuoso.
Buona lettura!! E poi ditemi... con con chi vi immedesimate tra i quattro personaggi di questa storia? 


*   *   *    *   *

I quattro personaggi passano le loro giornate in una stanza del labirinto usata come deposito di formaggio. Mentre, però, i due topi ogni mattina arrivando alla stanza del formaggio, la ispezionano per verificare i cambiamenti e tengono le scarpe legate sempre al collo per essere pronti a muoversi verso un’altra destinazione, gli gnomi pian piano si sono rilassati, arrivando sempre più tardi la mattina, e senza ispezionare la stanza in cerca di cambiamenti, convinti di poter dare per scontata la generosa scorta di cibo.

Quando il formaggio comincia a scarseggiare, i due topi lo notano, metton su le scarpe e partono alla ricerca di una stanza di formaggio più ricca: la situazione era cambiata e loro cambiavano con essa. 
Gli gnomi inizialmente non se ne accorgono, poi si lamentano dell’ingiustizia. Cercare nuovo formaggio comporta grande fatica nel labirinto e loro non vogliono rinunciare alla vita agiata costruita attorno al formaggio di quella stanza. Vogliono sapere chi ha spostato il loro formaggio.
Anche la mattina dopo, Tentenna e Ridolino tornano nella stanza, sperando di trovare formaggio. Non trovandone riprendono a recriminare. Poi Ridolino si accorge che Nasofino e Trottolino sono andati via e suggerisce a Tentenna di far come loro e addentrarsi nel dedalo in cerca di nuove riserve di cibo. Ma Tentenna rifiuta seccamente.
Nei giorni successivi Ridolino continua a proporre di andare alla ventura, e Tentenna sempre rifiuta.
Nel frattempo, Nasofino e Trottolino hanno trovato il formaggio. E’ costato molto lavoro e parecchia incertezza ma alla fine hanno trovato un nuovo deposito in una zona sconosciuta del labirinto.
Invece, giorno dopo giorno, Tentenna e Ridolino continuano a tornare al solito deposito di formaggio, nella speranza di trovarne di nuovo. Li attendono le medesime frustrazioni e le recriminazioni per quelli che credono essere loro diritti.
Finché la mentalità di Ridolino comincia a cambiare. Si immagina Nasofino e Trottolino alla ricerca di nuovo formaggio, fantastica di far parte di quella avventura. E più ci pensa più sente di voler partire. Tuttavia Tentenna ripete che se lavorassero di più riuscirebbero a trovare formaggio nel loro deposito e che si sente troppo vecchio per mettersi a cercare formaggio e si sentirebbe uno sciocco a partire.
Il giorno in cui Ridolino comprende di ripetere sempre gli stessi gesti e le stesse parole infruttuosamente, gli viene da ridere pensando a come la sua paura gli sta impedendo di agire. Scrive su un muro “Cosa faresti se non fossi impaurito?”. Rispondendo alla sua domanda, prende un respiro lungo e si lancia verso l’ignoto.
Il lungo periodo di digiuno lo ha lasciato debole e sentendo l’esiguità delle forze Ridolino dice a se stesso che se avesse avuto un altro cambiamento da affrontare nella vita, avrebbe reagito più prontamente. Vaga così per giorni trovando solo briciole. Da troppo tempo non si è aggirato per il labirinto e ora si sente disorientato. Tuttavia, deve ammettere che non è terrorizzato quanto avrebbe pensato. Per quanto faticosa possa essere la ricerca, è sempre meglio che rimanere immobili e senza formaggio. Ora controlla la situazione. Al contrario di quello che ha fatto in passato nel deposito di formaggio. Così scrive sul muro “Annusa spesso il formaggio così da sapere quando sta invecchiando”.
Si domanda se Tentenna si sia deciso a muoversi o sia rimasto paralizzato dalle paure. Riguardo a se stesso, non sa se sopravviverà, ma si sente meglio ora che è in cammino. Per questo scrive sul muro “Quando ti muovi oltre le tue paure, ti senti libero”.
Camminando comincia a immaginare la scena di quando gusterà i suoi formaggi preferiti e l’immagine è così vivida da dargli forza. Scrive allora sul muro “Immaginare di gustare il nuovo formaggio, anche prima di averlo trovato, mi conduce ad esso”.
E’ poco dopo che trova alcuni pezzi di formaggio fuori una stanza. Entra e con dolore scopre essere rimasto ben poco di quello che sembra essere stato un fornitissimo deposito di formaggio. Scrive sul muro: “Più velocemente lasci il vecchio formaggio, più rapidamente troverai il nuovo”.
Lasciando la nuova stanza Ridolino sente che a renderlo felice non è solo il formaggio, ma la sensazione di non essere controllato dalla paura. Non si sente così debole e senza speranze come ai tempi in cui era ancora nel primo deposito. Sul muro scrive: “E’ più sicuro cercare nel labirinto che rimanere in una situazione senza formaggio”.
Capisce anche che la paura nella propria mente è stata più dura della realtà: “Vecchie convinzioni non ti portano a nuovo formaggio”.
E finalmente accade. Ridolino si trova di fronte al deposito del miglior formaggio abbia mai sognato, dove - ci avrebbe scommesso, Nasofino e Trottolino riposano sazi. Comprende dunque tre cose: 1) il maggior freno al cambiamento è in noi stessi; 2) le cose non migliorano se non cambi te stesso; 3) c’è sempre nuovo formaggio là fuori, che tu ci creda o no.
Sarebbe facile ora ritornare nella pigrizia, ma non ricadrà più nel vecchio errore. Sebbene la riserva di cibo sia ingente non farà passare giorno senza controllare il formaggio e andare in perlustrazione nel labirinto, per farsi trovar pronto a un nuovo cambiamento.
In una di queste escursioni sente un rumore, come di qualcuno che si avvicini. Spera e prega che sia il suo amico Tentenna, e che anche lui abbia imparato l’insegnamento “Muoviti con il formaggio e apprezzalo”.



E voi siete pronti a partire alla ricerca del vostro formaggio? O l'avete già fatto? Quale dei personaggi vi rispecchia?







lunedì 31 ottobre 2011

Estratto: "Il gatto nero" di Edgar Allan Poe

Felice Halloween a tutti voi, specialmente a chi ha scelto di festeggiarlo nel mio café che ho addobbato per la festa ^__^
Come festeggerete il vostro Halloween? Andrete a qualche festa travestiti? Organizzerete cene a tema, o vedrete un film dell'orrore?
E che modo migliore di concludere la serata se non leggendo un racconto da brivido? >__<
Allora per voi ho scelto un classico, che forse conoscerete, è un racconto breve di Edgar Allan Poe, che io lessi per la prima volta un po' di anni fa, e ho scelto questa particolare occasione per proporlo a voi. 
Buona lettura e non fatevi spaventare troppo XDDD Muhahahahahahah!!!


*   *   *    *   *

Mi sposai giovane, e fui felice di trovare in mia moglie una indole congeniale alla  mia. Osservando la mia predilezione per  gli animali domestici, non perdeva occasione di procurarmi quelli  delle specie più piacevoli. Avevamo uccelli, pesci dorati, un bellissimo cane, conigli, una scimmietta e un gatto.
Quest'ultimo era un animale eccezionalmente forte e bello, tutto  nero, e straordinariamente sagace. 
Quando parlava della sua intelligenza, mia moglie, che in cuor  suo era non poco imbevuta di superstizione, alludeva spesso all'antica credenza popolare che considerava tutti i gatti neri streghe travestite. Non che ne parlasse seriamente: se accenno alla cosa, è solo perché proprio ora mi è capitato di rammentarmene.
Pluto ‐ era questo il nome del gatto ‐ era il mio beniamino, il mio compagno di giochi. Io solo gli davo da mangiare, e in casa lui mi seguiva dovunque andassi, anzi, a fatica riuscivo a impedirgli di accompagnarmi per la strada. 
La nostra amicizia durò a  questo modo per parecchi anni, durante i quali il mio temperamento, il mio carattere (arrossisco a confessarlo) avevano subito, ad opera del demone  dell'intemperanza, un radicale peggioramento.
Giorno dopo giorno divenni più lunatico, più irritabile, più indifferente ai  sentimenti altrui.  
M lasciai andare al punto di usare con mia moglie un linguaggio  brutale. Alla fine, arrivai anche a picchiarla. I miei animali,  naturalmente, risentirono di questo mutamento d'umore.
Non solo li trascurai, ma li maltrattai.  
Per  Pluto, tuttavia, conservavo ancora  quel tanto di  riguardo  che bastava a impedirmi di malmenarlo come, senza scrupolo alcuno, malmenavo i conigli, la scimmia o anche il cane,quando  per caso o per affetto mi venivano tra i piedi. Ma la mia malattia  mi divorava sempre più (e quale malattia è paragonabile all'alcool?), e alla fine anche Pluto, che si faceva vecchio e di conseguenza un po' fastidioso, anche Pluto cominciò a provare gli effetti del mio malumore.  
Una notte, tornando a casa, ubriaco fradicio, da uno dei ritrovi  che frequentavo in città, ebbi l'impressione che il gatto  evitasse la mia presenza. Lo afferrai; e allora, impaurito  dalla  mia violenza, coi denti mi ferì lievemente alla mano. Subito la  furia di un demone si impadronì di me.Non mi conoscevo più.
Sembrava che di colpo la mia anima originaria fosse fuggita via dal mio corpo; e una malignità più che diabolica, alimentata dal gin, eccitava ogni fibra del mio essere.
Trassi dal taschino del panciotto un temperino, lo aprii, afferrai la povera bestia per la gola, e deliberatamente con la  lama le cavai un occhio dall'orbita! 
Arrossisco, brucio, rabbrividisco nello scrivere di quest'infame atrocità.   
Quando, al mattino, ritornò la ragione ‐ svaporati nel sonno i fumi dell'orgia notturna ‐ provai un sentimento in parte d'orrore, in parte di rimorso per il delitto di cui m'ero reso colpevole; ma era tutt'al più un sentimento debole ed equivoco, e l'anima non ne fu toccata. Di nuovo mi diedi agli stravizi, e ben presto affogai nel vino ogni ricordo del mio atto.   
Nel frattempo, il gatto lentamente guarì. L'orbita dell'occhio perduto era, è vero, spaventosa a vedersi, ma pareva che non ne soffrisse più. Girava per la casa come  al solito ma, come ben  mi potevo aspettare, fuggiva in preda al terrore ogni qualvolta mi avvicinavo.
Tanto m'era rimasto ancora del mio vecchio cuore, che da principio mi afflisse quell'evidente ripugnanza da parte di una creatura che una volta mi aveva tanto amato, ma a questo sentimento subentrò ben presto l'irritazione.
E poi, a mia definitiva e irrevocabile rovina, sopraggiunse lo  spirito della perversità. 
Di tale spirito la filosofia non tiene conto. E tuttavia, così  come sono certo che la  mia anima vive, sono certo che la perversità è uno degli impulsi primitivi del cuore umano, una delle indivisibili facoltà primarie, o  sentimenti, che 
danno  un  indirizzo  al  carattere  dell'uomo. 
Chi non si è sorpreso cento volte nell'atto di commettere un'azione spregevole o stolta per la sola ragione che sapeva di non doverla commettere?  
Non abbiamo forse, a dispetto del nostro miglior consiglio, una  perpetua inclinazione a violare ciò che è legge, solo perché la riconosciamo come tale? A mia definitiva rovina, ripeto, sopraggiunse questo spirito di perversità. 
Fu questa insondabile  brama dell'anima di tormentare se stessa, di far violenza alla  propria natura, di fare il male per puro amore del male, che mi spinse a continuare e infine a consumare  l'offesa che avevo inflitto all'inoffensiva bestiola. 
Una mattina, a sangue freddo, le infilai un cappio al collo e la appesi al ramo d'un  albero; l'impiccai con gli occhi colmi  di lacrime e col più amaro rimorso nel cuore; l'impiccai perché sapevo che  mi aveva amato, e perché sentivo che non mi aveva dato ragione alcuna per farle del male; l'impiccai perché sapevo che così facendo commettevo un peccato, un peccato mortale  che avrebbe compromesso la mia anima immortale al punto da porla ‐ se ciò fosse possibile ‐ al di là della misericordia senza fine, di un Dio infinitamente pietoso e terribile.


La notte che seguì il giorno in cui fu commesso quell'atto crudele, mi destò dal sonno il grido «Al  fuoco!». Le cortine  del mio letto erano in fiamme. Tutta la casa ardeva. Con grande  difficoltà sfuggimmo all'incendio: mia  moglie, un domestico, e io. La distruzione fu completa. Tutte le mie ricchezze terrene vennero divorate dal fuoco, e da allora mi abbandonai alla disperazione.
Non cerco di stabilire un rapporto di causa ed effetto tra il sinistro e l'atrocità: sono superiore a queste debolezze, ma ora  sto descrivendo una  catena di eventi, e non voglio che nessun  anello risulti imperfetto. All'indomani dell'incendio, 
ispezionai le  rovine. Con una sola eccezione, i muri erano  crollati. L'eccezione riguardava un muro divisorio, non molto spesso, che stava, più o meno, nel mezzo della  casa, e contro  il quale prima poggiava la testata del  mio letto. Qui l'intonaco 
aveva resistito in gran parte all'azione del fuoco, giacché ‐ a questo attribuii il fatto ‐ era stato steso di recente. Intorno a questo muro si era raccolta una fitta folla, e molte persone sembravano esaminare una certa parte con minuziosa e viva 
attenzione. 
Le parole «strano!» «singolare!» e altre espressioni analoghe destarono la  mia  curiosità. Mi avvicinai e vidi, come scolpita  a bassorilievo sulla superficie bianca, la figura di un  gigantesco gatto. L'immagine era resa con stupefacente 
esattezza. 
Intorno al collo dell'animale, c'era una corda [...]

Vi lascio con un cocktail a tema ^__< 
Buon Halloween a tutti!!

giovedì 20 ottobre 2011

"L'abbraccio analfabeta" di Carlo Molinaro

Questo è un periodo che ispira alla lettura, le giornate fredde in cui magari non si hanno impegni, e si può stare a casa al calduccio, sono quelle ideali per darsi alla lettura. E allora rieccomi qui, ok questa non è casa vostra, è un semplice café, spero però di riuscire a farvi sentire a casa.
Quello che vi propongo oggi non è un passo di un libro,  però non è nemmeno una poesia, potrei definirlo un pensiero.  
Un pensiero espresso con una metafora iniziale, che se in un primo momento può apparire strana (accomunare una persona che abbraccia la prima volta con un sordomuto) poi ci appare così vero come paragone che non riusciamo a trovarne uno migliore per definire quella situazione e quell'emozione.
Capisco benissimo quello di cui parla lo scrittore, perché l'ho provato sulla mia pelle ... ora vi lascio alla lettura.
P.S: è breve, non è stancante da leggere, ed è molto bello, quindi leggete e commentate please ^_^


*   *   *    *   *

"Quando uno non ha abbracciato nessuno
da giovane, per anni, per decenni,
perché bloccato, per l'educazione,
per timidezza, per la solitudine,
perché in famiglia non si usa o per altri
motivi, quando finalmente abbraccia
- perché, a un'età qualsiasi, succede
che si sciolgano i nodi - allora lui
mentre abbraccia, è come i sordomuti
quando imparano col metodo vocale:
fanno vibrare le corde e ci contano
di emettere quel suono, ma non è che lo sentono:
guardano l'altro e se l'altro ha capito
sono felici: ci sono riusciti,
con l'impegno e il puntiglio, a fare il suono.

Così l'analfabeta degli abbracci,
quando finalmente si decide,
non ha gesti spontanei, studia come
muovere il braccio, la spalla, come stringere
di più o di meno, è stupito e impaurito
- benché felice - del contatto del corpo
sul corpo. È felice, è più felice di altri
che hanno sempre abbracciato, fin da piccoli:
è felice, è una conquista: ma recita
l'abbraccio, è in ansia che gli venga bene,
in pratica lo mette in scena, e gli altri
se ne accorgono, a volte se ne accorgono
e credono che sia un abbraccio finto:
invece è il più felice degli abbracci:
lui ci è arrivato per strade difficili
e quasi piange mentre riesce a fare
ciò che per altri è una cosa normale.

Se incontri uno così, devi capire
che non è finto, è il più vero dei veri:
lui finge ciò che veramente fa
perché non lo sa fare senza fingere:
è un po' come il poeta di Pessoa,
ma è così vero che dopo l'abbraccio
riuscirebbe a volare per la gioia:
però nessuno se ne accorge mai
perché, come l'abbraccio, anche lo sguardo
e gli altri gesti sono troppo incerti,
sgrammaticati, come di straniero,
e si resta perplessi, diffidenti.

Sono persone che fanno fatica
nelle cose più semplici, che mai
ti aspetteresti. Poi da soli in casa
cantano, ridono, scrivono versi."


venerdì 30 settembre 2011

Estratto: "P.S. I love you" di Cecelia Ahern

Salve avventori, in questo ultimo giorno di settembre, voglio proporvi un passo tratto da un libro che mi ha conquistato a prima vista.
Qualche anno fa, non ricordo quanti esattamente, forse un paio, ero alla Mondatori, e davo un'occhiata ai libri, e fui colpita dai colori bellissimi (azzurro e rosa) di una copertina. 
Presi il libro in mano, la copertina da vicino era ancora più carina, un cielo azzurro sfumato di rosa, con delle nuvolette bianche, ed il titolo, "P.S. I love you" ed appesa alla o di "you" un pacchetto di lettere tenute assieme da un nastro rosa.
Insomma era troppo carina, ma siccome i libri non si giudicano solo dalla copertina, sono andata sul retro del libro per leggere la trama. Se anche quella mi fosse piaciuta lo avrei comprato.
E quella era in realtà più carina di quello che mi sarei aspettata...
Il libro, dal quale è stato anche tratto un film, parla di una coppia, (Gerry e Holly ) marito e moglie, innamorati follemente, che hanno fatto l'uno dell'altro la propria ragione di vita. 
Ma le cose belle purtroppo non durano per sempre, e Gerry viene colpito da una malattia e muore, lasciando Holly nella disperazione e nel dolore. Lei passa le nottate a piangere, persa nei ricordi, e non riesce a trovare un motivo per cui valga la pena rialzarsi ed andare avanti.
Un giorno però accade qualcosa, che porterà ancora il sorriso sul volto di Holly, ormai da giorni rigato di lacrime. Holly inizia infatti a ricevere delle lettere da Gerry, una al mese,  lettere che la esortano a piccoli passi ad andare avanti, piccole cose da fare per rialzarsi e riprendere in mano la sua vita, lettere che terminano sempre con un "P.S. I love you"
Ora vi ripropongo appunto la prima delle lettere scritte, e se doveste leggere il libro, o anche solo vedere il film, vi consiglio di armarvi di fazzoletti, perché c'è da piangere T^T

Carissima Holly, 
non so dove sarai né quando esattamente leggerai queste parole. Spero soltanto che la mia lettera ti trovi serena e in buona salute. 
Non molto tempo fa mi hai sussurrato all'orecchio che non ce la fai ad andare avanti da sola. 
Invece puoi farcela, Holly. 
Sei forte e coraggiosa e supererai tutto questo. Abbiamo avuto dei momenti bellissimi, e tu hai reso la mia vita... Tu sei stata la mia vita. Non ho rimpianti. Ma io sono solo un capitolo della tua vita: ce ne saranno molti altri. 
Aggrappati pure ai nostri magnifici ricordi, ma non avere paura di creartene di nuovi. Grazie per avermi fatto l'onore di essere mia moglie. Ti sarò eternamente riconoscente, per tutto. 
Ogni volta che avrai bisogno di me, sappi che ti sono vicino. 
Ti amerò per sempre. Tuo marito e il tuo migliore amico. Gerry 

P:S. Ti avevo promesso una lista, quindi eccola. 
Dovrai aprire ogni busta alla data indicata e dovrai fare tutto quello che c'è scritto dentro. 
Io ti curo, ricordatelo, perciò lo verrò a sapere... Holly fu travolta da una malinconia infinita, e pianse. Ma nello stesso tempo si sentì sollevata all'idea che in qualche modo Gerry sarebbe stato con lei ancora per un po'. Passò in rassegna le piccole buste bianche leggendo i nomi dei mesi. Era aprile, ma ce n'era una per il mese di marzo. La prese delicatamente con due dita e l'aprì. Conteneva un biglietto scritto da Gerry, che diceva: Cerca di non farti altri lividi e deciditi a comprare una lampada da mettere sul comodino!
 P.S. I Love You.



Sorseggiate e leggete con calma, alla prossima!

giovedì 22 settembre 2011

Estratto: "Le avventure di Pinocchio- Storia di un burattino" di Carlo Collodi

Salve a tutti quelli che in questo giorno di fine settembre, (una bella giornata comunque, almeno da me) hanno scelto di trovare rifugio, per qualche minuto o per qualche ora all'interno di questo café.
Oggi vorrei fare un omaggio al burattino più famoso del mondo che quest'anno compie 130 anni,  bene ben 130 che la storia di questo burattino birichino che sogna di poter diventare un bambino vero accompagna i bambini di quasi tutto il mondo. 
Una favola non delicata e dolce, come magari dalle favole ci si aspetterebbe, ma che sembra quasi mettere in guardia i bambini dalle brutture del mondo, ci vuole dire di non fidarci di tutte le persone, ci vuole dire che a perder tempo e a giocare si diventa bambocci, ci vuole dire che per essere brave persone bisogna faticare, e che se si disubbidisce ai grandi si prendono scappellotti, ci si può ammalare, si può essere inseguiti dagli assassini, finire in prigione, o inghiottiti da un pesce cane XD
Insomma da far inorridire qualsiasi bambino XDD
Da i tratti talvolta un po' macabri  e talvolta buffi insomma, ma quelli erano altri tempi, quando fu pubblicata la storia era il lontano 1883, quindi magari le favole erano scritte proprio per intimorire e mettere in guardia i pargoli.
Ma veniamo a noi, vi propongo un passo, ovvero un capitolo della favola, ero molto indecisa su quale proporvi, ma alla fine ho optato per quello in cui Pinocchio incontra la Bambina dai capelli turchini, il famoso momento in cui Pinocchio malato deve prendere la medicina cattiva XD.
Troviamo una fatina molto materna e paziente, e un burattino fin troppo indisponente... ma bando alle ciance, vi lascio alla lettura.... eh non scordatevi di lasciare un commento e di prendere una fetta di torta ^__^v


*   *   *    *   *

[...]Appena i tre medici furono usciti di camera, la Fata si accostò a Pinocchio, e, dopo averlo toccato sulla fronte, si accòrse che era travagliato da un febbrone da non si dire.

Allora sciolse una certa polverina bianca in un mezzo bicchier d’acqua, e porgendolo al burattino, gli disse amorosamente:

— Bevila, e in pochi giorni sarai guarito. —
Pinocchio guardò il bicchiere, storse un po’ la bocca, e poi dimanda con voce di piagnisteo:
— È dolce o amara?
— È amara, ma ti farà bene.
— Se è amara non la voglio.
— Da’ retta a me: bevila.
— A me l’amaro non mi piace.
— Bevila: e quando l’avrai bevuta, ti darò una pallina di zucchero, per rifarti la bocca.
— Dov’è la pallina di zucchero?
— Eccola qui — disse la Fata, tirandola fuori da una zuccheriera d’oro.
— Prima voglio la pallina di zucchero, e poi beverò quell’acquaccia amara....
— Me lo prometti?
— Sì.... —
La fata gli dette la pallina, e Pinocchio, dopo averla sgranocchiata e ingoiata in un attimo, disse leccandosi i labbri:
— Bella cosa se anche lo zucchero fosse una medicina!... Mi purgherei tutt’ i giorni.
— Ora mantieni la promessa e bevi queste poche gocciole d’acqua, che ti renderanno la salute. —
Pinocchio prese di mala voglia il bicchiere in mano e vi ficcò dentro la punta del naso: poi se l’accostò alla bocca: poi tornò a ficcarci la punta del naso: finalmente disse:
— È troppo amara! troppo amara! Io non la posso bere.
— Come fai a dirlo, se non l’hai nemmeno assaggiata?
— Me lo figuro! L’ho sentita all’odore. Voglio prima un’altra pallina di zucchero… e poi la beverò! —
Allora la Fata, con tutta la pazienza di una buona mamma, gli pose in bocca un altro po’ di zucchero; e dopo gli presentò daccapo il bicchiere.
— Così non lo posso bere! — disse il burattino, facendo mille smorfie.
— Perchè?
— Perchè mi dà noia quel guanciale che ho laggiù sui piedi. —
La Fata gli levò il guanciale.
— È inutile! Nemmeno così la posso bere…
— Che cos’altro ti dà noia?
— Mi dà noia l’uscio di camera, che è mezzo aperto.
La Fata andò, e chiuse l’uscio di camera.
— Insomma, — gridò Pinocchio dando in uno scoppio di pianto — quest’acquaccia amara, non la voglio bere, no, no, no!…
— Ragazzo mio, te ne pentirai…
— Non me n’importa…
— La tua malattia è grave.
— Non me n’importa…
— La febbre ti porterà in poche ore all’altro mondo…
— Non me n’importa…
— Non hai paura della morte?
— Punto paura! Piuttosto morire, che bevere quella medicina cattiva. —
A questo punto, la porta della camera si spalancò, ed entrarono dentro quattro conigli neri come l’inchiostro, che portavano sulle spalle una piccola bara da morto.
— Che cosa volete da me? — gridò Pinocchio, rizzandosi tutto impaurito a sedere sul letto.
— Siamo venuti a prenderti — rispose il coniglio più grosso.
— A prendermi? Ma io non sono ancora morto!...
— Ancora no: ma ti restano pochi momenti di vita, avendo tu ricusato di bevere la medicina, che ti avrebbe guarito dalla febbre!
— O Fata mia, o Fata mia! — cominciò allora a strillare il burattino — datemi subito quel bicchiere... Spicciatevi, per carità, perchè non voglio morire, no… non voglio morire. —
E preso il bicchiere con tutt’e due le mani, lo votò in un fiato.
— Pazienza! — dissero i conigli. — Per questa volta abbiamo fatto il viaggio a ufo. — E tiratisi di nuovo la piccola bara sulle spalle, uscirono di camera bofonchiando e mormorando fra i denti.
Fatto sta che di lì a pochi minuti, Pinocchio saltò giù dal letto, bell’e guarito; perchè bisogna sapere che i burattini di legno hanno il privilegio di ammalarsi di rado e di guarire prestissimo.
E la Fata, vedendolo correre e ruzzare per la camera, vispo e allegro come un gallettino di primo canto, gli disse:
— Dunque la mia medicina t’ha fatto bene davvero?
— Altro che bene! Mi ha rimesso al mondo!
— E allora come mai ti sei fatto tanto pregare a beverla?
― Egli è che noi ragazzi siamo tutti così! Abbiamo più paura delle medicine che del male.
― Vergogna! I ragazzi dovrebbero sapere che un buon medicamento preso a tempo, può salvarli da una grave malattia e fors’anche dalla morte....
— Oh! ma un’altra volta non mi farò tanto pregare! Mi rammenterò di quei conigli neri, con la bara sulle spalle.... e allora piglierò subito il bicchiere in mano e giù....
— Ora vieni un po’ qui da me, e raccontami come andò che ti trovasti fra le mani degli assassini.
— Gli andò, che il burattinaio Mangiafoco, mi dette cinque monete d’oro, e mi disse: — To’, portale al tuo babbo! — e io, invece, per la strada trovai una Volpe e un Gatto, due persone molto per bene, che mi dissero: — Vuoi che codeste monete diventino mille e duemila? Vieni con noi, e ti condurremo al Campo dei Miracoli. — E io dissi, andiamo; — e loro dissero: — Fermiamoci qui all’osteria del Gambero Rosso, e dopo la mezzanotte ripartiremo. — E io quando mi svegliai, non c’erano più, perchè erano partiti. Allora io cominciai a camminare di notte, che era un buio che pareva impossibile, per cui trovai per la strada due assassini dentro due sacchi da carbone, che mi dissero: ― Metti fuori i quattrini; ― e io dissi: ― non ce n’ho; ― perchè le monete d’oro me l’ero nascoste in bocca, e uno degli assassini si provò a mettermi le mani in bocca, e io con un morso gli staccai la mano e poi la sputai, ma invece di una mano sputai uno zampetto di gatto. E gli assassini a corrermi dietro, e io corri che ti corri, finchè mi raggiunsero, e mi legarono per il collo a un albero di questo bosco col dire: ― Domani torneremo qui, e allora sarai morto e colla bocca aperta, e così ti porteremo via le monete d’oro che hai nascoste sotto la lingua. ―
― E ora le quattro monete dove le hai messe? ― gli domandò la Fata.
― Le ho perdute! ― rispose Pinocchio; ma disse una bugia, perchè invece le aveva in tasca.
Appena detta la bugia il suo naso, che era già lungo, gli crebbe subito due dita di più.
― E dove le hai perdute?
― Nel bosco qui vicino. ―
A questa seconda bugia, il naso seguitò a crescere.
― Se le hai perdute nel bosco vicino ― disse la Fata ― le cercheremo e le ritroveremo: perchè tutto quello che si perde nel vicino bosco, si ritrova sempre. 
— Ah! ora che mi rammento bene — replicò il burattino imbrogliandosi — le quattro monete non le ho perdute, ma senza avvedermene, le ho inghiottite mentre bevevo la vostra medicina. — A questa terza bugia, il naso gli si allungò in un modo così straordinario, che il povero Pinocchio non poteva più girarsi da nessuna parte. Se si voltava di qui, batteva il naso nel letto o nei vetri della finestra, se si voltava di là, lo batteva nelle pareti o nella porta di camera, se alzava un po’ di più il capo, correva il rischio di ficcarlo in un occhio alla Fata.
E la Fata lo guardava e rideva.
— Perchè ridete? — gli domandò il burattino, tutto confuso e impensierito di quel suo naso che cresceva a occhiate.
— Rido della bugia che hai detto.
— Come mai sapete che ho detto una bugia?
— Le bugie, ragazzo mio, si riconoscono subito, perchè ve ne sono di due specie: vi sono le bugie che hanno le gambe corte, e le bugie che hanno il naso lungo: la tua per l’appunto è di quelle che hanno il naso lungo. ―
Pinocchio, non sapendo più dove nascondersi per la vergogna, si provò a fuggire di camera, ma non gli riuscì. Il suo naso era cresciuto tanto, che non passava più dalla porta.[...]




Ancora tanti auguri a Pinocchio per i suoi 130 anni!!!




giovedì 1 settembre 2011

Estratto: "Inviti superflui" di Dino Buzzati

Ciao a tutti... cosa vi porto? Avete guardato il menù? E' in fondo al blog...
Avete scelto il vostro libro? No? Beh come non comprendervi, la scelta è vasta, vi aiuto io?
Allora oggi vi consiglio un passo, che mi è stato suggerito da Piccopì, quindi lo giro con piacere a voi...
Nel paragrafo che vi propongo si parla di un amore, o meglio del ricordo di un amore, o di quello che si credeva esser tale. Un amore tra persone diverse, forse troppo incompatibili.
Ma chi lo dice che l'amore non possa esistere anche tra persone che apparentemente non hanno niente in comune? Vi lascio alla lettura del passo, e poi se volete ditemi la vostra... cosa ne pensate di questa storia?


*   *   *    *   *

[...]Vorrei che tu venissi da me una sera d'inverno e, stretti insieme dietro i vetri, guardando la solitudine delle strade buie e gelate, ricordassimo gli inverni delle favole, dove si visse insieme senza saperlo. Per gli stessi sentieri fatati passammo infatti tu ed io, con passi timidi, insieme andammo attraverso le foreste piene di lupi, e i medesimi genii ci spiavano dai ciuffi di muschio sospesi alle torri, tra svolazzare di corvi. Insieme, senza saperlo, di là forse guardammo entrambi verso la vita misteriosa, che ci aspettava. Ivi palpitarono in noi, per la prima volta pazzi e teneri desideri. "Ti ricordi?" ci diremo l'un l'altro, stringendoci dolcemente, nella calda stanza, e tu mi sorriderai fiduciosa mentre fuori daran tetro suono le lamiere scosse dal vento. Ma tu - ora mi ricordo - non conosci le favole antiche dei re senza nome, degli orchi e dei giardini stregati. Mai passasti, rapita, sotto gli alberi magici che parlano con voce umana, né battesti mai alla porta del castello deserto, né camminasti nella notte verso il lume lontano lontano, né ti addormentasti sotto le stelle d'Oriente, cullata da piroga sacra. Dietro i vetri, nella sera d'inverno, probabilmente noi rimarremo muti, io perdendomi nelle favole morte, tu in altre cure a me ignote. Io chiederei "Ti ricordi?", ma tu non ricorderesti. 


Vorrei con te passeggiare, un giorno di primavera, col cielo di color grigio e ancora qualche vecchia foglia dell'anno prima trascinata per le strade dal vento, nei quartieri della periferia; e che fosse domenica. In tali contrade sorgono spesso pensieri malinconici e grandi; e in date ore vaga la poesia, congiungendo i cuori di quelli che si vogliono bene. Nascono inoltre speranze che non si sanno dire, favorite dagli orizzonti sterminati dietro le case, dai treni fuggenti, dalle nuvole del settentrione. Ci terremo semplicemente per mano e andremo con passo leggero, dicendo cose insensate, stupide e care. Fino a che si accenderanno i lampioni e dai casamenti squallidi usciranno le storie sinistre della città, le avventure, i vagheggiati romanzi. E allora noi taceremo sempre tenendoci per mano, poiché le anime si parleranno senza parola. Ma tu - adesso mi ricordo - mai mi dicesti cose insensate, stupide e care. Né puoi quindi amare quelle domeniche che dico, né l'anima tua sa parlare alla mia in silenzio, né riconosci all'ora giusta l'incantesimo delle città, né le speranze che scendono dal settentrione. Tu preferisci le luci, la folla, gli uomini che ti guardano, le vie dove dicono si possa incontrare la fortuna. Tu sei diversa da me e se venissi quel giorno a passeggiare, ti lamenteresti d'essere stanca; solo questo e nient'altro. 


Vorrei anche andare con te d'estate in una valle solitaria, continuamente ridendo per le cose più semplici, ad esplorare i segreti dei boschi, delle strade bianche, di certe case abbandonate. Fermarci sul ponte di legno a guardare l'acqua che passa, ascoltare nei pali del telegrafo quella lunga storia senza fine che viene da un capo del mondo e chissà dove andrà mai. E strappare i fiori dai prati e qui, distesi sull'erba, nel silenzio del sole, contemplare gli abissi del cielo e le bianche nuvolette che passano e le cime delle montagne. Tu diresti "Che bello!" Niente altro diresti perché noi saremmo felici; avendo il nostro corpo perduto il peso degli anni, le anime divenute fresche, come se fossero nate allora. 


Ma tu - ora che ci penso - tu ti guarderesti intorno senza capire, ho paura, e ti fermeresti preoccupata ad esaminare una calza, mi chiederesti un'altra sigaretta, impaziente di fare ritorno. E non diresti "Che bello!", ma altre povere cose che a me non importano. Perché purtroppo sei fatta così. E non saremmo neppure per un istante felici. 


Vorrei pure - lasciami dire - vorrei con te sottobraccio attraversare le grandi vie della città in un tramonto di novembre, quando il cielo è di puro cristallo. Quando i fantasmi della vita corrono sopra le cupole e sfiorano la gente nera, in fondo alla fossa delle strade, già colme di inquietudini. Quando memorie di età beate e nuovi presagi passano sopra la terra, lasciando dietro di se una specie di musica. Con la candida superbia dei bambini guarderemo le facce degli altri, migliaia e migliaia, che a fiumi ci trascorrono accanto. Noi manderemo senza saperlo luce di gioia e tutti saran costretti a guardarci, non per invidia e malanimo; bensì sorridendo un poco, con sentimento di bontà, per via della sera che guarisce le debolezze dell'uomo. Ma tu - lo capisco bene - invece di guardare il cielo di cristallo e gli aerei colonnati battuti dall'estremo sole, vorrai fermarti a guardare le vetrine, gli ori, le ricchezze, le sete, quelle cose meschine. E non ti accorgerai quindi dei fantasmi, né dei presentimenti che passano, né ti sentirai, come me, chiamata a sorte orgogliosa. Né udresti quella specie di musica, né capiresti perché la gente ci guardi con occhi buoni. Tu penseresti al tuo povero domani e inutilmente sopra di te le statue d'oro sulle guglie alzeranno le spade agli ultimi raggi. Ed io sarei solo. E' inutile. Forse tutte queste sono sciocchezze, e tu migliore di me, non presumendo tanto dalla vita. Forse hai ragione tu e sarebbe stupido tentare. Ma almeno, questo sì almeno, vorrei rivederti. Sia quel che sia, noi staremo insieme in qualche modo, e troveremo la gioia. Non importa se di giorno o di notte, d'estate o d'autunno, in un paese sconosciuto, in una casa disadorna, in una squallida locanda. Mi basterà averti vicina. Io non starò qui ad ascoltare - ti prometto - gli scricchiolii misteriosi del tetto, né guarderò le nubi, né darò retta alle musiche o al vento. Rinuncerò a queste cose inutili, che pure io amo. Avrò pazienza se non capirai ciò che ti dico, se parlerai di fatti a me strani, se ti lamenterai dei vestiti vecchi e dei soldi. Non ci saranno la cosiddetta poesia, le comuni speranze, le mestizie così amiche all'amore. Ma io ti avrò vicina. E riusciremo, vedrai, a essere abbastanza felici, con molta semplicità, uomo e donna solamente, come suole accadere in ogni parte del mondo. 


Ma tu - adesso ci penso - sei troppo lontana, centinaia e centinaia di chilometri difficili a valicare. Tu sei dentro a una vita che ignoro, e gli altri uomini ti sono accanto, a cui probabilmente sorridi, come a me nei tempi passati. Ed è bastato poco tempo perché ti dimenticassi di me. Probabilmente non riesci più a ricordare il mio nome. Io sono ormai uscito da te, confuso tra le innumerevoli ombre. Eppure non so pensare che a te, e mi piace dirti queste cose. [...]



lunedì 29 agosto 2011

Estratto: "Harry Potter e il prigioniero di Azkaban" di J.K. Rowling

Rieccoci qui, con il nostro Café littéraire, oggi vi propongo un passo tratto da "Harry Potter e il prigioniero di Azkaban" di J.K. Rowling, per esattezza il momento in cui la famosa e a quanto pare gustosa burrobirra fa la sua prima comparsa all'interno della storia  del nostro caro maghetto....
A proposito se volete conoscere la ricetta della "magica" bevanda ecco Qui due varianti.
Ora tornando a noi e al nostro passo: E' il terzo anno, e Harry si è infiltrato senza averne il permesso, nella gita a Hogsmeade. E' pieno inverno e i tre infreddoliti decidono di rifugiarsi in un pub del villaggio "Tre manici di scopa"....


*   *   *    *   *

[...]Hogsmeade sembrava un biglietto natalizio: i piccoli cottage col tetto spiovente e i negozi erano coperti da uno strato di neve fresca; c'erano ghirlande di agrifoglio sulle porte e candele incantate appese agli alberi.
Harry tremava; a differenza degli altri due, non aveva il mantello. Risalirono la via, le teste chine contro il vento, Ron e Hermione intenti a urlare attraverso le sciarpe.
"Quello è l'ufficio postale..."
"Zonko è da quella parte..."
"Potremmo andare fino alla Stamberga Strillante..."
"Sapete cosa vi dico?" propose Ron, coi denti che battevano. "Perché non andiamo a prenderci una Burrobirra ai Tre Manici di Scopa?"
Harry era più che d'accordo: il vento era tagliente e lui aveva le mani gelate, così attraversarono la strada e dopo qualche minuto entravano nella piccola locanda.
Era molto affollata, rumorosa, calda e fumosa. Una donna ben tornita con un viso grazioso stava servendo una comitiva di chiassosi stregoni al bancone.
"Quella è Madama Rosmerta" disse Ron. "Vado a prendere da bere, d'accordo?" aggiunse, arrossendo un pochino.
Harry e Hermione si fecero strada fino in fondo al locale, dove c'era un tavolino libero tra la finestra e un bell'albero di Natale vicino al camino. Ron tornò cinque minuti dopo con tre boccali schiumanti di Burrobirra bollente.
"Buon Natale!" disse allegramente alzando il suo.
Harry bevve a lunghi sorsi. Era la cosa più squisita che avesse mai assaggiato e gli parve che lo scaldasse tutto da dentro.
Una corrente improvvisa gli scompigliò i capelli. La porta dei Tre manici si era riaperta. Harry gettò uno sguardo in quella direzione da sopra l'orlo del boccale e la Burrobirra gli andò di traverso.[...]




giovedì 25 agosto 2011

Estratto: "La solitudine dei numeri primi" di Paolo Giordano

Care lettrici ^_^
Rieccoci al nostro café. Oggi voglio proporvi un passo del libro "La solitudine dei numeri primi" di Paolo Giordano, un passo che mi ha molto affascinato, perché fonde la matematica, quindi cose razionali con l'amore! 
Usa la matematica per descrivere l'unicità del suo sentimento, e questo mi piace perché è un po' quello che fa il mio love quando scrive dei bigliettini dolci per me.
Lui infatti non scrive solo cose smielate, ma cerca di descrivermi i suoi sentimenti attraverso la scienza, la fisica quantistica e teorie varie sull'anima, sempre in maniera dolce. Io trovo questo molto romantico *___*
Beh ora la smetto di annoiarvi e vi lascio a questo dolcissimo passo!!!
Alla  prossima!!!


*   *   *    *   *

[...]I numeri primi sono divisibili soltanto per 1 e per  stessi. Se ne stanno al loro posto nell'infinita serie dei numeri naturali, schiacciati come tutti fra due, ma un passo in là rispetto agli altri. Sono numeri sospettosi e solitari e per questo Mattia li trovava meravigliosi. Certe volte pensava che in quella sequenza ci fossero finiti per sbaglio, che vi fossero rimasti intrappolati come perline infilate in una collana. Altre volte, invece, sospettava che anche a loro sarebbe piaciuto essere come tutti, solo dei numeri qualunque, ma che per qualche motivo non ne fossero capaci.In un corso del primo anno Mattia aveva studiato che tra i numeri primi ce ne sono alcuni ancora più speciali. I matematici li chiamano primi gemelli: sono coppie di numeri primi che se ne stanno vicini,anzi,quasi vicini, perché fra di loro vi è sempre un numero pari che gli impedisce di toccarsi per davvero. Numeri come l’11 e il 13, come il 17 e il 19, il 41 e il 43. Se si ha la pazienza di andare avanti a contare, si scopre che queste coppie via via si diradano. ci si imbatte in numeri primi sempre più isolati, smarriti in quello spazio silenzioso e cadenzato fatto solo di cifre e si avverte il presentimento angosciante che le coppie incontrate fino a lì fossero un fatto accidentale, che il vero destino sia quello di rimanere soli.Poi, proprio quando ci si sta per arrendere, quando non si ha più voglia di contare, ecco che ci si imbatte in altri due gemelli, avvinghiati stretti l’uno all'altro  Tra i matematici è convinzione comune che per quanto si possa andare avanti, ve ne saranno sempre altri due, anche se nessuno può dire dove, finché non li si scopre.Mattia pensava che lui e Alice erano così, due primi gemelli, soli e perduti, vicini ma non abbastanza per sfiorarsi davvero. A lei non l’aveva mai detto.[...]


mercoledì 24 agosto 2011

Estratto: "Lo Zahir" di Paulo Coelho

Come prima lettura vi propongo un passo tratto dal "Lo Zahir" di Paulo Coelho.
Allora mettetevi comodi, assaporate la vostra cioccolata e buona lettura!


*   *   *    *   *

[...]Prendo un taxi fino al centro di Parigi, mi faccio portare all’Arc de Triomphe. Comincio a camminare lungo gli Champs-Elysées, in direzione dell’Hotel Bristol, dove di solito consumavo una cioccolata calda con Esther ogni volta che uno di noi tornava da un viaggio all’estero. Era una sorta di rituale di ritorno a casa, un’immersione nell’amore che ci teneva uniti, anche se la vita ci spingeva verso strade sempre più diverse.

Continuo a camminare. Le persone sorridono, i bambini sono allegri per queste poche ore primaverili in pieno inverno. Il traffico scorre fluido, tutto sembra perfettamente in ordine, tranne il fatto che nessuno di questi individui sa – o finge di non sapere, o semplicemente non gli interessa – che ho appena perduto mia moglie.Ma non capiscono quanto sto soffrendo? Dovrebbero sentirsi tutti tristi, commossi e solidali con un uomo dall’anima sanguinante d’amore. Invece seguitano a ridere, immersi nelle loro piccole e miserabili vite che si realizzano solo nei fine-settimana.Che pensiero ridicolo: probabilmente molte delle persone che incrocio hanno l’anima dilaniata – e io non so perché né come stiano soffrendo.Entro in un bar per comprare le sigarette, e lì mi rispondono in inglese. Vado in una farmacia per acquistare un certo tipo di pasticche alla menta che adoro, e il commesso mi parla in inglese. (Entrambe le volte, ho formulato la mia richiesta in francese.) Prima di arrivare in albergo, vengo fermato da due ragazzi appena arrivati da Tolosa: vogliono sapere dove si trova un certo negozio; hanno già abbordato vari passanti, ma nessuno ha capito cosa dicevano. Che sta succedendo? Durante le mie ventiquattr’ore di detenzione hanno forse cambiato la lingua degli Champs-Elysées?Il turismo e il denaro sono in grado di fare miracoli: come mai non me ne sono accorto prima? Perché, a quanto pare, Esther e io non abbiamo più preso quella cioccolata da molto tempo, anche se siamo partiti e tornati varie volte nell’ultimo periodo. C’è sempre stato qualcosa di più importante. C’è sempre stato un impegno improrogabile.“Sì, amore mio, la prossima volta andremo a bere la nostra cioccolata, torna presto... Sai che oggi ho un’intervista davvero importante e non posso venire all’aeroporto; prendi un taxi, tengo il cellulare acceso: se c’è qualcosa di urgente, puoi chiamarmi, altrimenti ci vediamo stasera.”Il telefono cellulare! Lo tiro fuori dalla tasca, e lo accendo immediatamente; squilla varie volte, e in ogni occasione il mio cuore sussulta; sul piccolo display, leggo i nomi delle persone che mi stanno cercando, ma non rispondo a nessuna. Magari comparisse un “anonimo”: potrebbe essere soltanto lei, giacché il suo numero di telefono è noto soltanto a una ventina di persone che si sono impegnate a non divulgarlo. Invece non compare, sono tutti numeri di amici o professionisti piuttosto intimi. Vorranno chiedermi che cosa è successo, vorranno aiutarmi (come?), vorranno sapere se ho bisogno di qualche cosa.Il telefono continua a squillare. Devo rispondere? Devo incontrare qualcuna di queste persone?Decido che rimarrò solo finché non avrò capito che cosa sta succedendo.Arrivo al Bristol: Esther diceva sempre che è uno dei pochi alberghi di Parigi dove i clienti sono trattati come ospiti, e non come senzatetto alla ricerca di un riparo. Mi salutano come se fossi uno di famiglia. Scelgo un tavolo davanti allo splendido orologio, ascolto il pianoforte, guardo il giardino all’esterno. Devo essere pratico, studiare le alternative: la vita continua.Non sono né il primo né l’ultimo uomo a essere stato abbandonato dalla moglie – ma bisognava proprio che accadesse in un giorno soleggiato, con la gente sorridente per le strade, coi bambini che cantano, con la primavera che mostra i primi segni, con il sole che splende, con gli autisti che rispettano le strisce pedonali?

Prendo un tovagliolo: voglio cavare queste idee dalla mente e metterle sulla carta. Accantoniamo i sentimenti e vediamo che cosa devo fare:

a) Considerare la possibilità che sia stata sequestrata, che in questo momento sia in pericolo di vita, e io che sono il suo uomo, il suo compagno di sempre, devo smuovere cielo e terra per ritrovarla. Risposta a questa eventualità: ha preso il passaporto. La polizia non lo sa, ma ha portato via anche alcuni oggetti di uso personale e un portafogli con alcune immaginette di santi protettori che prendeva sempre con sé quando partiva per andare all’estero. Ha ritirato dei soldi dalla banca. Conclusione: si stava preparando per partire.b) Considerare la possibilità che abbia creduto a qualche promessa, la quale, alla fine, si è trasformata in una trappola. Risposta: spesso si era cacciata in situazioni pericolose – faceva parte del suo lavoro. Ma mi avvertiva sempre, giacché io ero l’unica persona nella quale poteva riporre piena fiducia. Mi diceva i posti degli appuntamenti, con chi sarebbe entrata in contatto (anche se, per non mettermi in pericolo, la maggior parte delle volte usava il nome di battaglia dell’individuo con cui doveva vedersi) e che cosa avrei dovuto fare nel caso non fosse tornata entro una certa ora. Conclusione: non aveva in mente un incontro con qualcuna delle sue fonti di informazione.c) Considerare la possibilità che abbia trovato un altro uomo. Risposta: non c’è una risposta. Fra tutte le ipotesi, è l’unica che abbia un senso. E questo non posso accettarlo: non posso accettare che se ne vada in una tale maniera, senza comunicarmi almeno una ragione. Sia io sia Esther siamo sempre stati orgogliosi di affrontare insieme tutte le difficoltà della vita. Abbiamo sofferto, ma non ci siamo mai mentiti l’un l’altro – anche se tacere alcune avventure extraconiugali faceva parte delle regole del gioco. Di certo, ha cominciato a cambiare dopo aver conosciuto un certo Mikhail, ma questo giustifica la fine di un matrimonio dopo dieci anni? Anche se fosse andata a letto con lui, se si fosse innamorata, non avrebbe messo sulla bilancia tutti i momenti passati insieme, tutto ciò che abbiamo conquistato, prima di partire per un’avventura senza ritorno? Era libera di viaggiare a suo piacimento, viveva circondata di uomini, soldati che non vedevano una donna da chissà quanto tempo, ma io non le ho mai domandato niente, e lei non mi ha mai detto niente. Eravamo entrambi liberi, e ci sentivamo orgogliosi di questo. Ma Esther è scomparsa. Lasciando alcune tracce visibili solo per me, come se si trattasse di un messaggio segreto: “Me ne sto andando via.” Perché? Vale davvero la pena di rispondere a questa domanda? No, giacché nella risposta si cela la mia incapacità di tenermi accanto la donna che amo. Vale la pena di cercarla per convincerla a tornare? Implorare, mendicare un’altra possibilità per il nostro matrimonio. Tutto ciò sembra ridicolo: è meglio soffrire come ho già sofferto in precedenza, allorché altre donne amate hanno finito per lasciarmi. È meglio che mi lecchi le ferite, come ho fatto in passato. Per qualche tempo, continuerò a pensare a lei, mi trasformerò in un essere dolente, farò irritare tutti gli amici perché non avrò altri argomenti all’infuori dell’allontanamento di mia moglie. 

Tenterò di trovare una giustificazione per quello che è accaduto, trascorrerò i giorni e le notti rivedendo mentalmente i momenti passati accanto a lei, finirò per concluderne che è stata dura nei miei confronti, proprio con me che ho sempre cercato di essere disponibile e di fare del mio meglio. Troverò altre donne. Camminando per la strada, a ogni istante incrocerò qualcuna che potrebbe essere lei. Soffrirò giorno e notte, notte e giorno. E questo potrà durare settimane, mesi, forse anche più di un anno.
Finché una mattina, al risveglio, mi renderò conto che sto pensando a qualcosa di diverso e capirò che il peggio è ormai passato. Il cuore è affranto, ma si riprenderà e riuscirà a scorgere ancora la bellezza della vita. È già successo in precedenza, e accadrà di nuovo: ne sono sicuro. Se qualcuno se ne va è perché arriverà qualcun altro – io incontrerò nuovamente l’amore.[...]