Titolo: Al giardino ancora non l'ho detto
Autore: Pia Pera
Editore: Ponte alle Grazie
Data di pubblicazione: 30 giugno 2016
Pagine: 224
Prezzo: 15,00 €
Trama:
Pia con questo libro ha trovato modo di aprirci le porte sulla sua esistenza, anzi di spalancarcele. E la scopriamo davvero piena di bellezza, di serenità, di quelle che James Herriot ha chiamato cose sagge e meravigliose, di un'altra speranza. È davvero un dono meraviglioso quello che in primo luogo Pia Pera ha fatto a se stessa e che poi, per nostra fortuna, dopo lunga riflessione ha deciso di condividere con i suoi lettori.
Un libro che, come pochi altri, ci aiuta a comprendere la straordinaria avventura di stare al mondo.
Recensione:
Pia Pera comincia a scrivere queste pagine partendo da un moto di riflessioni che le turbinano in mente, scaturite dalla lettura della poesia di Emily Dickinson "I haven't told my garden yet", tra le cui righe si suggerisce che verrà un giorno in cui il giardiniere non terrà fede all'appuntamento e lascerà il giardino a se stesso, inconsapevole di essere stato abbandonato dalle mani di chi se ne è sempre preso cura.
“Al giardino ancora non l’ho detto
non ce la farei.
Nemmeno ho la forza adesso
di confessarlo all’ape.
Non ne farò parola per strada
le vetrine mi guarderebbero fisso
che una tanto timida, tanto ignara
abbia l’audacia di morire.
Non devono saperlo le colline
dove ho tanto vagabondato
né va detto alle foreste amanti
il giorno che me ne andrò
e non lo si sussurri a tavola
né si accenni sbadati, en passant,
che qualcuno oggi
penetrerà dentro l’Ignoto.”
Il testo colpisce Pia per la visione rivoluzionaria con cui la Dickinson guarda alla morte.
Non lo fa con l'egoismo di chi vede la vita strappata ingiustamente via. Non pensa a tutte le cose che dovrà abbandonare, ma si mette nei panni dell'abbandonato.
Come sopravviverà il giardino quando non ci sarà più nessuno a prendersene cura? Come sopravviverà chi abbiamo lasciato indietro?
Una visione altruista o forse, sotto un certo punto di vista, presuntuosa perché parte dal presupposto di crederci indispensabili, insostituibili e necessari.
Ci fa pensare che il mondo, il nostro mondo, quello in cui muoviamo quotidianamente i nostri passi, si potrebbe anche fermare dopo la nostra scomparsa.
Da tutte queste riflessioni ha inizio il libro che ha come tema il giardiniere e la morte, in cui Pia Pera racconta, purtroppo, il lento progredire della malattia che l'ha colpita e che, via via, le strappa possibilità e speranze.
La allontana man mano da quel giardino in cui si è rifugiata, e ha scelto di vivere, e la vede trasformarsi sempre più da presenza attiva e laboriosa a distante osservatrice del mondo che le muta attorno.
Il libro è un vero e proprio flusso di coscienza, una raccolta di pensieri messi insieme a dare vita ad una sorta di diario in cui, piano piano, Pia rivela al lettore tutti i suoi pensieri, da quelli più gioiosi, a quelli più cupi.
Ci racconta del suo amore per il giardino e le piante, degli amici che accoglie in casa sua, del progredire della malattia, della paura di perdere l'autonomia, dell'inquietudine di non poter morire con dignità.
Racconta le mille terapie provate nel tentativo di migliorare, delle speranze nate e morte, delle cure sperimentali e dei vari ciarlatani in cui si è imbattuta solo in cambio di una speranza.
Affronta anche il tema dell'eutanasia, prende in considerazione l'idea di iscriversi ad Exit, la clinica di Zurigo che aiuta i suoi iscritti ad andarsene consapevolmente senza soffrire.
Si dichiara favorevole al lasciare a ciascuno il diritto di poter andar via con dignità, ma allo stesso tempo contraria a quelli che definisce "corsisti della morte", ovvero tutti coloro che, lavorando per la suddetta clinica, anziché mostrare ai malati mille buoni motivi per continuare a vivere, gli presentano solo una facile via d'uscita.
“Talvolta mi capita di pensare: ecco, per me l’esperienza in questo momento è questo viso davanti a me, la persona con cui sto parlando. Mentre per questa persona, in questo momento, è il mio viso a costituire l’esperienza del mondo.
Come se io fossi l’altro che sto guardando, e l’altro fosse io che lo guardo. Chi è vecchio o malato, parlando con una persona sana, giovane, probabilmente dimentica la sua condizione. Ma se, spaventando un malato con i terrori dell’accanimento terapeutico, sbattendogli in faccia la condizione materiale del corpo di cui è titolare, lo priviamo della possibilità di guardare, anziché se stesso, il mondo, lo cacciamo nel vicolo cieco della paura.
Gli imponiamo la nostra visione della sua persona, ed è come se gli dicessimo: fatti da parte, non vale la pena che tu resti, conciato come sei.”
Come se io fossi l’altro che sto guardando, e l’altro fosse io che lo guardo. Chi è vecchio o malato, parlando con una persona sana, giovane, probabilmente dimentica la sua condizione. Ma se, spaventando un malato con i terrori dell’accanimento terapeutico, sbattendogli in faccia la condizione materiale del corpo di cui è titolare, lo priviamo della possibilità di guardare, anziché se stesso, il mondo, lo cacciamo nel vicolo cieco della paura.
Gli imponiamo la nostra visione della sua persona, ed è come se gli dicessimo: fatti da parte, non vale la pena che tu resti, conciato come sei.”
Tuttavia a momenti di ottimismo si alternano giorni oscuri e bui, che diventano sempre più numerosi e frequenti.
La malattia le toglie progressivamente tutto ma, se è possibile, le dà qualcosa di inaspettato: la comprensione verso chi non aveva mai compreso, il biasimo verso le persone che non aveva, in passato, mai considerato.
Pia Pera spesso afferma di aver sempre, prima della malattia, guardato con un certo disprezzo alle persone affette da disabilità, quelle incapaci di badare a se stessi, considerandoli d'intralcio, inutili, inservibili alla società. Ostacoli.
Di contro ha sempre considerato eccessivamente esagerati coloro che disperdono energie in attività inutili.
Da questo punto di vista la malattia le appare quindi un modo per regolare i conti con la sé del passato, quella che infliggeva aspre sentenze senza dare diritto di replica.
Il diario che Pia Pera ci lascia non è una lettura facile, non è spensierata o allegra, è ovviamente triste, ma non deprimente, tutt'altro. Ha lo straordinario effetto di invogliare a vivere la vita nella sua totale pienezza.
Cogliere le opportunità, accogliere nuove esperienze, aprirsi alle possibilità.
Insegna a dire di sì piuttosto che no, a dare il giusto valore alle cose.
Una lettura che consiglio a tutti, trovo che Pia Pera ci abbia fatto un grande dono nel rendere noti dei pensieri così intimi e personali e penso che leggerli sia un bellissimo modo per omaggiarla, ma soprattutto un bellissimo regalo che possiamo fare a noi stessi.
Considerazioni:
"Al giardino ancora non l'ho detto" non è una lettura che si legge a cuor leggero, per questo l'ho dosato. Letto un po' per volta. Non è facile entrare nella vita e nei pensieri di qualcuno, perciò ho scelto di farlo a piccoli passi.
Amore e dolore, passione e disperazione sono le emozioni che emergono prepotenti.
La tranquillità, Pia, la ritrova sempre nel suo adorato giardino, un legame forte e profondamente sentito.
Leggere delle passeggiate tra le aiuole e le siepi, della pace che quella natura così familiare le infonde, fa letteralmente venir voglia di avere un giardino tutto per sé.
E io lo so bene dato che questo desiderio l'ho sempre avuto sin da quando lessi quel libro di cui tante volte vi ho già parlato, quel libro che ha fatto nascere in me la passione per la lettura, ovvero "Il giardino segreto" di F.H. Burnett.
Non immaginerete la mia sorpresa quando ho letto che proprio Pia Pera ne ha curato la traduzione per Salani, la traduzione di uno dei miei libri preferiti!
Fatalista come sono l'ho interpretato come un segno del destino.
Mi è spiaciuto "rincontrare" questa scrittrice proprio ora che è scomparsa e proprio nel diario in cui lascia le sue memorie.
Però, come dicevo, in esso non ho trovato solo dolore, ma anche tanta ispirata dolcezza e profonda passione per il suo amato giardino.
Ho ritrovato nelle sue descrizioni della natura le stesse sensazioni che mi aveviano fatto adorare il libro della Burnett, la stessa idea di serenità e libertà che mi ha sempre fatto desiderare di trovare la chiave per aprire la porta del mio giardino segreto.
Ho compreso la tranquillità che il giardino le dava perché è riuscita a trasmettermela.
Ho capito il suo desiderio di isolarsi dal mondo, vivendo circondata da ciò che più le dava gioia e serenità, e il desiderio poi di morire sempre in quel luogo tanto sicuro e caro.
“Il giardiniere e la morte si configura allora così: il rifugiarsi in un luogo ove morire non sia aspro. Ove morire faccia un po’ meno paura. Dove sia possibile non darsi troppa importanza per l’inevitabile non esserci più, un giorno. Accettando con calma di essere qualcosa di piccolo e indefinito, un puntino nel paesaggio.”
Così come ho compreso il suo strazio nel dover progressivamente dire addio a ciò che più amava e la teneva viva.
“Non sono più il giardiniere. Sono pianta tra le piante, anche di me bisogna prendersi cura. Cosa è cambiato rispetto a prima? Innaffiavo, scavavo, pacciamavo, seminavo, coglievo, rastrellavo, potavo, bruciavo, concimavo, ramavo, tagliavo l’erba. Ora nulla di tutto questo.
Passeggio, guardo, valuto, dico cosa fare, ma soprattutto: mi viene preparato da mangiare, mi viene servito a tavola, vengono lavate e stirate le mie cose, vengo accompagnata in auto.
Comincio a somigliare sempre più a una pianta di cui bisogna prendersi cura, divento sorella di tutto quanto vive nel giardino, parte di questa sconfinata materia di cui ignoro confini e profondità.”
Il suo corpo diventa la sua prigione. Non risponde più ai suoi comandi, non obbedisce più alla sua volontà. Ne è semplicemente obbligata.
Mentre leggevo di Pia e della sua malattia mi è venuto spontaneo pensare ad un altro libro letto tempo fa "La ragazza del buio" di Anna Lyndsey.
Anche la Lyndsey scrive una sorta di diario in cui racconta la malattia da cui è affetta (una grave forma di ipersensibilità alla luce), sin dagli esordi, con i primi sintomi, e tutto il suo lento progredire, fino al momento in cui la patologia l'ha obbligata a rintanarsi in una stanza buia. Dire addio al mondo e rintanarsi dietro quella porta salvavita.
Come Pia Pera anche la Lyndsey racconta le speranze, i dolori, le terapie, le illusioni e delusioni, i miglioramenti e le ricadute.
Entrambe prigioniere del proprio corpo, entrambe con ancora tanti desideri e tanta vita davanti e l'impossibilità di viverla al meglio.
Sono storie a cui non si può restare indifferenti, tristi si, ma al contrario delle apparenze sono delle vere e proprie lodi alla vita.
Concludo le mie considerazioni con la poesia "Bed in summer", di Robert Louis Stevenson, con cui l'autrice chiude il suo diario.
Credo che non ci sia metafora migliore per spiegare quanto sia triste ed ingiusto dire così prematuramente addio alla vita, quando si ha ancora così tanta voglia di viverla
"A letto d'estate"
“D’inverno mi alzo la notte,
E mi vesto alla luce gialla della candela.
D’estate è tutto il contrario,
Mi tocca andare a letto di giorno.
Mi tocca andare a letto e vedere
Gli uccellini saltellare ancora sull’albero,
Oppure sentire i passi dei grandi
Che se ne vanno ancora per la strada.
Ma non vi pare brutto,
Col cielo così chiaro e azzurro,
Quando si vorrebbe tanto giocare,
Dovere andare a letto di giorno?”
Ringrazio la casa editrice Ponte alle Grazie per avermi fornito una copia cartacea di questo libro
il mio voto per questo libro
Bella recensione davvero <3 Muriomu complimenti - sembra davvero un libro da leggere
RispondiEliminaPassata per un saluto - per augurarti buon fine settimana e per invitarti al Rifugio
Dal 1° del mese e per tutto Novembre al Rifugio è in corso un Link Party se vuoi partecipare sei invitata caldamente ecco il link http://ilrifugiodeglielfi.blogspot.it/2016/10/link-party-degli-elfi-iii-edizione.html
Buona giornata