Oggi ho pensato di proporvi un passo tratto da "La ragazza di lupi" di Katherine Rundell, un libro davvero particolare che, come avrete intuito dalla recensione, vi consiglio di leggere.
In questa scena l'autrice ci parla del gelido inverno della Russia, e di quanto a volte sia difficile resistere ad un clima così rigido.
Il tutto si conclude con un prezioso consiglio che Marina, la madre della protagonista, offre alla bimba e, di rimando, a tutti noi.
Mettetevi comodi, sorseggiate un po' di cioccolata, e buona lettura!
Nel corso della sua vita, Feo aveva incontrato cinque tipi di freddo.
C'era il freddo del vento, che passava inosservato; era molesto, rumoroso, e arrossava le guance come uno schiaffo, ma non riusciva ad uccidere nessuno, nemmeno quando ci provava.
C'era il freddo della neve, che pizzicava le braccia e screpolava le labbra, ma portava con sé una vera ricompensa; era il tempo preferito da Feo: la neve era morbida, perfetta per costruire lupi di neve.
C'era il freddo del ghiaccio, che poteva strappare la pelle dai palmi delle mani, ma solo a chi glielo permetteva: era improbabile che lo facesse, se stavi attento. Il freddo del ghiaccio aveva un odore vivido e penetrante; spesso lo accompagnava un cielo blu, ed era perfetto per pattinare. Feo aveva grande rispetto per il freddo del ghiaccio.
Ma c'era anche il freddo duro, quello che arrivava quando il freddo del ghiaccio diventava tanto rigido che, dopo un mese, cominciavi a dubitare che l'estate fosse mai esistita. Il freddo duro poteva essere crudele. Gli uccelli morivano in volo. Era un freddo nel quale bisognava farsi strada a calci e pedate.
Infine c'era il freddo cieco. Il freddo cieco sapeva di metallo e granito. Si portava via tutti i sensi e soffiava la neve negli occhi finché le palpebre non restavano incollate; per aprirle di nuovo, dovevi strofinarle con la saliva. Il freddo cieco era quaranta gradi sotto zero. Era un freddo nel quale, per evitare di farsi trovare morti stecchiti a maggio o giugno dell'anno successivo, non si poteva stare fermi a pensare.
Feo aveva sperimentato il freddo cieco solo una volta, una notte di febbraio dell'anno prima, quando le pareti di casa avevano cominciato a scricchiolare. La sua mamma l'aveva avvolta in sei coperte, cinque attorno al corpo e una per la testa e il collo, ed erano rimaste fuori al freddo fino a quando Feo non aveva cominciato a contorcersi, annaspando in cerca d'aria. A quel punto Marina l'aveva sollevata tra le braccia e l'aveva riportata in casa.
«L'hai sentito il freddo?» aveva detto Marina.
«Certo, mamma.» Ignorare il freddo cieco era come ignorare un orso a cavallo di un leone. «Perché l'hai fatto? Fa male.»
«Perché voglio che tu sia coraggiosa, tesoro mio, ma non stupida. Quando lo senti arrivare, corri in cerca di un rifugio. Hai capito? Corri anche se le gambe sono così fredde che non riesci a capire se sono ancora attaccate al corpo. Sarebbe stupido non avere paura del freddo cieco.»
«Ma la paura è da codardi» aveva detto Feo.
«No, Feo! La codardia è da codardi. La paura appartiene a persone che hanno cervello, occhi e terminazioni nervose funzionanti.»
«Mi hai sempre detto che devo essere coraggiosa!»
«Sì, non devi fare tutto quello che ti suggerisce la paura; devi prestarle solo un orecchio, lapushka. Non disprezzare la paura. Il mondo è più complicato di così.»
C'era il freddo del vento, che passava inosservato; era molesto, rumoroso, e arrossava le guance come uno schiaffo, ma non riusciva ad uccidere nessuno, nemmeno quando ci provava.
C'era il freddo della neve, che pizzicava le braccia e screpolava le labbra, ma portava con sé una vera ricompensa; era il tempo preferito da Feo: la neve era morbida, perfetta per costruire lupi di neve.
C'era il freddo del ghiaccio, che poteva strappare la pelle dai palmi delle mani, ma solo a chi glielo permetteva: era improbabile che lo facesse, se stavi attento. Il freddo del ghiaccio aveva un odore vivido e penetrante; spesso lo accompagnava un cielo blu, ed era perfetto per pattinare. Feo aveva grande rispetto per il freddo del ghiaccio.
Ma c'era anche il freddo duro, quello che arrivava quando il freddo del ghiaccio diventava tanto rigido che, dopo un mese, cominciavi a dubitare che l'estate fosse mai esistita. Il freddo duro poteva essere crudele. Gli uccelli morivano in volo. Era un freddo nel quale bisognava farsi strada a calci e pedate.
Infine c'era il freddo cieco. Il freddo cieco sapeva di metallo e granito. Si portava via tutti i sensi e soffiava la neve negli occhi finché le palpebre non restavano incollate; per aprirle di nuovo, dovevi strofinarle con la saliva. Il freddo cieco era quaranta gradi sotto zero. Era un freddo nel quale, per evitare di farsi trovare morti stecchiti a maggio o giugno dell'anno successivo, non si poteva stare fermi a pensare.
Feo aveva sperimentato il freddo cieco solo una volta, una notte di febbraio dell'anno prima, quando le pareti di casa avevano cominciato a scricchiolare. La sua mamma l'aveva avvolta in sei coperte, cinque attorno al corpo e una per la testa e il collo, ed erano rimaste fuori al freddo fino a quando Feo non aveva cominciato a contorcersi, annaspando in cerca d'aria. A quel punto Marina l'aveva sollevata tra le braccia e l'aveva riportata in casa.
«L'hai sentito il freddo?» aveva detto Marina.
«Certo, mamma.» Ignorare il freddo cieco era come ignorare un orso a cavallo di un leone. «Perché l'hai fatto? Fa male.»
«Perché voglio che tu sia coraggiosa, tesoro mio, ma non stupida. Quando lo senti arrivare, corri in cerca di un rifugio. Hai capito? Corri anche se le gambe sono così fredde che non riesci a capire se sono ancora attaccate al corpo. Sarebbe stupido non avere paura del freddo cieco.»
«Ma la paura è da codardi» aveva detto Feo.
«No, Feo! La codardia è da codardi. La paura appartiene a persone che hanno cervello, occhi e terminazioni nervose funzionanti.»
«Sì, non devi fare tutto quello che ti suggerisce la paura; devi prestarle solo un orecchio, lapushka. Non disprezzare la paura. Il mondo è più complicato di così.»