Titolo: Novecento. Un monologo
Autore: Alessandro Baricco
Editore: Feltrinelli (collana Universale Economica)
Data di pubblicazione: gennaio 2013
Pagine: 62
Prezzo: 5,00 €
Trama:
Il Virginian era un piroscafo. Negli anni tra le due guerre faceva la spola tra Europa e America, con il suo carico di miliardari, di emigranti e di gente qualsiasi. Dicono che sul Virginian si esibisse ogni sera un pianista straordinario, dalla tecnica strabiliante, capace di suonare una musica mai sentita prima, meravigliosa. Dicono che la sua storia fosse pazzesca, che fosse nato su quella nave e da lì non fosse mai sceso. Dicono che nessuno sapesse il perché...
Recensione:
Era da tanto tempo che desideravo leggere qualcosa di Baricco, e da altrettanto tempo rimandavo questo proposito, non sapendo a quale dei suoi romanzi dedicarmi inizialmente.
Non molti giorni fa mi sono imbattuta in questo libricino, Novecento, e mi è sembrata la scelta più giusta.
Poche pagine, ma abbastanza per intuire lo stile dell'autore e il suo modo di raccontare.
Abbastanza per decidere se la conoscenza con Baricco è una cosa che voglio approfondire oppure no.
Dopo aver fatto questa doverosa premessa, posso finalmente dire che questo racconto, pur essendo breve, una sessantina di pagine circa, mi ha conquistato poco a poco.
Abbiamo un uomo con una storia che, a suo dire, merita di essere narrata.
Seguendo quest'unica voce saliremo sul grande Virginian, la nave che per ben sette anni è stata la sua casa.
Salito a bordo come trombettista, l'uomo in questione troverà nel viaggio intrapreso più di quanto avesse immaginato.
Perché, come ben si sa, le cose più importanti arrivano sempre quando uno meno se le aspetta.
Così mentre cerca di sopportare un terribile mal di mare, il nostro narratore incontra Danny Boodman T.D. Lemon Novecento, l'uomo di cui tutti chiacchierano.
Il più abile e talentuoso pianista mai conosciuto, il bambino nato anni or sono su quella stessa nave, ma soprattutto l'unica persona a non aver mai messo piede sulla terraferma.
Sembra incredibile eppure Novecento non sa cosa significhi camminare se non ondeggiando sull'oceano, non conosce finestre se non gli oblò, non sa cosa sia la vita vera, al di là di quella che percepisce negli altri.
Tutto quello che può fare è ascoltare, le storie dei passeggeri, i posti che visitano, le persone che incontrano, i colori, i suoni, i profumi che lui può solo immaginare.
Novecento li respira, li fa suoi e li traduce in musica.
Divora emozioni e desideri e li libera con note musicali.
Potevi pensare che era matto. Ma non era così semplice. Quando uno ti racconta con assoluta esattezza che odore c'è in Bertham Street, d'estate, quando ha appena smesso di piovere, non puoi pensare che è matto per la sola stupida ragione che in Bertham Street, lui, non c'è mai stato. Negli occhi di qualcuno, nelle parole di qualcuno, lui, quell'aria, l'aveva respirata davvero. A modo suo: ma davvero. Il mondo, magari, non l'aveva visto mai. Ma erano ventisette anni che il mondo passava su quella nave: ed erano ventisette anni che lui, su quella nave, lo spiava. E gli rubava l'anima.
In questo era un genio, niente da dire. Sapeva ascoltare. E sapeva leggere. Non i libri, quelli son buoni tutti, sapeva leggere la gente. I segni che la gente si porta addosso: posti, rumori, odori, la loro terra, la loro storia... Tutta scritta, addosso. Lui leggeva, e con cura infinita, catalogava, sistemava, ordinava... Ogni giorno aggiungeva un piccolo pezzo a quella immensa mappa che stava disegnandosi nella testa, immensa, la mappa del mondo, del mondo intero, da un capo all'altro, città enormi e angoli di bar, lunghi fiumi, pozzanghere, aerei, leoni, una mappa meravigliosa. Ci viaggiava sopra da dio, poi, mentre le dita gli scivolavano sui tasti, accarezzando le curve di un ragtime.
In questo era un genio, niente da dire. Sapeva ascoltare. E sapeva leggere. Non i libri, quelli son buoni tutti, sapeva leggere la gente. I segni che la gente si porta addosso: posti, rumori, odori, la loro terra, la loro storia... Tutta scritta, addosso. Lui leggeva, e con cura infinita, catalogava, sistemava, ordinava... Ogni giorno aggiungeva un piccolo pezzo a quella immensa mappa che stava disegnandosi nella testa, immensa, la mappa del mondo, del mondo intero, da un capo all'altro, città enormi e angoli di bar, lunghi fiumi, pozzanghere, aerei, leoni, una mappa meravigliosa. Ci viaggiava sopra da dio, poi, mentre le dita gli scivolavano sui tasti, accarezzando le curve di un ragtime.
Non conosce il mondo e soprattutto non conosce la natura umana fino in fondo.
Non sa cos'è l'invidia o la cattiveria. Non compete con il prossimo ma cerca di aiutarlo.
Vede il meglio nelle persone perché solo il meglio gli è stato mostrato. Le feste, i canti, le serate di jazz: questa è la sua vita, ed il rilassato parterre in vacanza è il suo pubblico.
Pur essendo a tutti gli effetti un adulto mostra l'ingenuità e la spontaneità di un bambino. È puro come solo chi non è stato contaminato dal denaro e dalle ambizioni può essere. Come solo chi vive su una nave da sempre.
È diverso da tutti gli altri ed è proprio la sua diversità a conquistare. Il suo essere naïf lo rende uno di quei personaggi che ti entrano nel cuore (un po' come il Gatsby di Fitzgerald), a cui ripensi con nostalgia.
Per quanto il libro sia sicuramente ben scritto, il punto di forza del romanzo sta proprio nella storia e nel suo protagonista. E nelle emozioni che riesce a trasmettere.
Il bello sta proprio in questo, nel saper raccontare qualcosa in modo così incisivo ed intenso da non aver bisogno di centinaia di pagine o di tanti giri di parole.
Il bello sta nell'avere un messaggio da consegnare, nel saper come arrivare al cuore delle persone. Nel lasciare il segno.
Considerazioni:
Come dicevo prima questo breve romanzo è stato proprio una bella sorpresa.
Inizialmente ero un po' perplessa, dopo aver appreso (dalla prefazione) che il libro non era altro che la pubblicazione di una sceneggiatura teatrale. Mi è già capitato in passato di avere a che fare con altre stesure di questo genere e devo ammettere che non mi hanno mai convinta del tutto. L'idea di leggere ancora di entrate in scena, cambio di luci, primi piani e scenografie non mi attirava più di tanto.
Per fortuna in questo caso gli interventi fuori campo sono molto limitati e non pesano sulla lettura che non risulta interrotta in alcun modo.
Altra cosa che ho apprezzato è la scelta di introdurre la storia tramite un narratore esterno (che rimane anonimo), come accadeva in passato con i cantastorie.
In questo modo la vicenda riesce a conservare quell'alone di mistero e leggenda che solo le vecchie storie hanno.
Per quanto riguarda invece lo stile posso dire che, pur non utilizzando Baricco un vocabolario particolarmente forbito, riesce d'altronde ad impreziosire la narrazione con metafore, riferimenti a suoni e profumi, vere e proprie rievocazioni di atmosfere.
Da questo punto di vista Novecento potrebbe anche sembrare un percorso per immagini: un insieme di visioni che lo scrittore regala al lettore.
Per quanto tutto questo sia già sufficiente per rendere Novecento un buon libro, un'unica cosa lo rende addirittura speciale: il protagonista.
Novecento è enigmatico e misterioso, quel genere di personaggio che, per quanto ti sforzi, non riesci mai a capire fino in fondo.
Cosa aveva visto, da quel maledetto terzo gradino, non me lo volle dire. Quel giorno e poi per i due viaggi che facemmo dopo, Novecento rimase un po' strano, parlava meno del solito, e sembrava molto occupato in qualche sua faccenda personale. Noi non facevamo domande. Lui faceva finta di niente. Si vedeva che non era proprio tutto normale, ma comunque non ci andava di chiedergli qualcosa. Andò così per qualche mese. Poi un giorno Novecento entrò nella mia cabina e lentamente ma tutto di fila, senza fermarsi, mi disse: "Grazie per il cappotto, mi andava da dio, è stato un peccato, avrei fatto un figurone, ma adesso va tutto molto meglio, è passata, non devi pensare che io sia infelice: non lo sarò mai più".
Per me, non ero nemmeno sicuro che lo fosse mai stato, infelice. Non era una di quelle persone di cui ti chiedi chissà se è felice quello. Lui era Novecento, e basta. Non ti veniva da pensare che c'entrasse qualcosa con la felicità, o col dolore. Sembrava al di là di tutto, sembrava intoccabile. Lui e la sua musica: il resto, non contava.
"Non devi pensare che io sia infelice: non lo sarò mai più." Mi lasciò secco, quella frase. Aveva la faccia di uno che non scherzava, quando la disse. Uno che sapeva benissimo dove stava andando. E che ci sarebbe arrivato. Era come quando si sedeva al pianoforte e attaccava a suonare, non c'erano dubbi nelle sue mani, e i tasti sembravano aspettare quelle note da sempre, sembravano finiti lì per loro, e solo per loro. Sembrava che inventasse lì per lì: ma da qualche parte, nella sua testa, quelle note erano scritte da sempre.
Adesso so che quel giorno Novecento aveva deciso di sedersi davanti ai tasti bianchi e neri della sua vita e di iniziare a suonare una musica assurda e geniale, complicata ma bella, la più grande di tutte. E che su quella musica avrebbe ballato quel che rimaneva dei suoi anni. E che mai più sarebbe stato infelice.
Seguendo i suoi ragionamenti, per quanto sembrino assurdi, non si può non rimanere affascinati: la scelta di non competere con il musicista rivale Jelly Roll, il modo in cui sogna di allontanarsi dalla vita di tutti i giorni solo per poterla riabbracciare con maggiore entusiasmo un giorno, la paura dell'ignoto, il terrore delle infinite possibilità che lo aspettano.
Novecento pensa come un bambino ma con la profondità di un vecchio saggio.
In questo mi ha ricordato tanto il piccolo principe di Antoine de Saint-Exupéry.
Entrambi animati solo da sentimenti sinceri, entrambi liberi dai doveri e dalle convenzioni. Entrambi pronti a rinunciare alla vita sulla terra pur di ritornare (Il piccolo principe) o rimanere (Novecento) nell'unico mondo che sembra appartenergli. A rinunciare a tutto pur di essere di nuovo a casa.
il mio voto per questo libro