Titolo: Tu l'hai detto
Autore: Connie Palmen
Editore: Iperborea
Data di pubblicazione: aprile 2018
Pagine: 256
Prezzo: 17,00 €
Americana di nascita, figlia di immigrati tedeschi, Sylvia Plath si trova in Inghilterra con una borsa di studio quando conosce Ted Hughes: il loro è un amore immediato e dirompente che fin dall’inizio sembra proiettarli in una sfera magica: si sposano quasi subito, fanno due figli, e insieme vivono anni di grande lavoro e creatività, un’intesa e una simbiosi perfetta nella quale la vita, la poesia e l’arte sono inestricabilmente intrecciate. Ma all’improvviso tutto precipita e dopo essere stata tradita e lasciata da Ted, Sylvia si suicida in una fredda giornata di febbraio del 1963, mettendo la testa nel forno, quando aveva poco più che trent’anni. Lei viene subito considerata una santa e una martire, lui un traditore, un assassino – un’etichetta impietosa che gli rimarrà addosso per il resto della vita.
Connie Palmen fa raccontare a lui la sua verità: Ted Hughes, il poeta, il marito, il colpevole.
Recensione:
Ho finito questo libro da poche ore e ho subito sentito l'esigenza di mettere su carta le mie impressioni. Non ho ancora ben chiaro il mio giudizio in merito, in quanto ho apprezzato tantissimo molte parti, ma ho trovato inconcludenti o esagerati alcuni frangenti.
Come avete dedotto dalla trama, con questo romanzo l'autrice intendeva dare la parola a Ted Hughes, poeta laureato nonché marito della scrittrice, morta suicida, Sylvia Plath.
Dopo il tragico evento, l'uomo è stato additato come il colpevole, ragion per cui l'opera in oggetto offre uno scenario diverso, una versione dei fatti raccontata con una nuova prospettiva, quella del testimone sopravvissuto.
Il racconto inizia con l'idillio, il colpo di fulmine tra i due, l'amore travolgente e l'avventato matrimonio. C'è da dire che già in questa fase vengono delineate le prime ombre: gli incubi notturni e gli attacchi di panico che affliggono la giovane donna, da poco ripresasi dopo un primo tentativo di suicidio.
Sylvia Plath viene infatti descritta come una donna fortemente disturbata, in perenne lotta con i suoi demoni e i suoi dolori (tra cui la morte improvvisa del padre), costantemente preda degli umori e del temperamento volubile. Affascinante e seducente, briosa e piena di vita nei giorni buoni, fragile e pavida come una bimba in quelli funesti.
Quanto più lei si attirava il disprezzo di tutti, tanto più sentivo il bisogno di proteggerla da un mondo ostile, e tanto più forte cresceva in me la convinzione di essere l'unico a conoscerla realmente.
Solo io sapevo quale croce portasse, e che il nemico più pericoloso non stava in agguato dietro i muri delle loro case, ma era lei a covarlo come una serpe in seno.
Solo io sapevo quale croce portasse, e che il nemico più pericoloso non stava in agguato dietro i muri delle loro case, ma era lei a covarlo come una serpe in seno.
Più si va avanti con le pagine, più il fragile equilibrio tende a vacillare: Ted Hughes, che nel frattempo ha raggiunto fama e successo, comincia a sentirsi in gabbia, intrappolato nel ruolo di infermiere e confidente, mentre la moglie che, al contrario di lui, non riesce a brillare nel lavoro, finisce per nutrire invidia e gelosia nei confronti del consorte.
Fino ad arrivare al punto di non ritorno: la relazione clandestina di lui, l'abbandono del tetto coniugale e la discesa nel baratro della Plath fino al suicidio.
Vorrei cominciare parlandovi della scrittura della Palmen: essa si articola il più delle volte in passaggi ricchi di poetica, che delineano in modo nitido sensazioni ed emozioni. Il lettore sembra vivere sulla sua pelle la sofferenza e la paura della Plath, il senso di impotenza del marito, la visione di una tragedia inevitabile.
Tuttavia altre volte l'autrice sembra così presa dall'infarcire il suo racconto con dettagli ampollosi, facendo largo uso di uno stile retorico e affettato - sicuramente al fine di fungere che sia davvero lo scrittore inglese a raccontare - da perdere di vista il fulcro della narrazione, e per di più la sensazione di empatia che si era venuta a creare. La situazione spiacevole, purtroppo, si ripete più e più volte, inficiando sicuramente la lettura.
Inoltre nel romanzo si fa spesso riferimento ad altri poeti, ad altri testi ed in generale alla creazione artistica. Essa è un po' il filo conduttore che lega tutto, in quanto buona parte dello sconforto di Sylvia Plath viene imputata alla sua insoddisfazione come scrittrice e al fulgente successo di Ted Hughes. Quindi si parla costantemente di ciò che entrambi componevano in determinati momenti della loro vita, di ciò che serve per dar voce al proprio io interiore, di ciò che, invece, blocca l'io poetico.
Pur consapevole che, un uomo davvero attanagliato dal senso di colpa e addolorato per la costante assenza del suo unico amore, non dovrebbe soffermarsi così tanto su esternazioni nozionistiche di tal sorta, devo ammettere di averle comunque apprezzate, in quanto interessanti in linea generale, ma soprattutto ben attribuibili al personaggio di poeta laureato.
Ora veniamo al punto dolente, quello che a mio parere è il vero difetto della storia, ossia aver deciso di chiamare i due protagonisti Ted Hughes e Sylvia Plath.
Capisco che la scelta di richiamarsi a nomi così altisonanti possa aver aiutato la Palmen nelle vendite - immagino che non avrebbe riscosso lo stesso successo nel caso di un'anonima coppia di un qualunque posto del mondo - tuttavia bisogna chiedersi quanto sia giusto mescolare realtà e finzione.
Purtroppo molti dati oggettivi sono stati stravolti o perlomeno visibilmente alterati, e tanti altri taciuti, pur di dar credito alla versione del marito ingiustamente accusato.
Mi sembra doveroso citare due tra gli esempi più eclatanti: l'aborto di Sylvia Plath e la gravidanza di Assia Wevill.
Per quanto riguarda la perdita del bambino della scrittrice, essa è appena nominata in una frase, e neppure in maniera chiara.
E pensare che solo poche pagine prima la Palmen, tramite la voce di Ted Hughes ovviamente, aveva rimarcato più e più volte quanta importanza rivestisse la maternità per la Plath, il suo sentirsi finalmente completa e realizzata in veste di genitrice.
Fatto sta che, immediatamente dopo, lei ha un aborto spontaneo, e questo evento - traumatico per ogni donna ma in particolare per chi è affetto da depressione - viene bellamente ignorato.
Strano, penserete. No, se consideriamo che, nella realtà, una fitta corrispondenza tra la Plath e la sua psicanalista, Ruth Barnhouse, ha rivelato che l'interruzione della gravidanza è stata molto probabilmente causata dalle ripetute violenze praticate da Hughes su sua moglie.
Ovviamente rivelare questo piccolo inconsistente particolare non avrebbe giovato alla causa del "marito amorevole/capro espiatorio della gente cattiva", d'altra parte affrontare l'argomento senza fare parola delle numerose lettere, sarebbe parso ancora più sospetto. Quindi un accenno veloce, giusto per toglierci il pensiero, e via.
Per la seconda questione, ovvero la dolce attesa di Assia Wevill, la donna con cui Ted Hughes aveva intrapreso una relazione clandestina per chi non lo sapesse, agli occhi dell'autrice del romanzo non è mai avvenuta.
La cosa più assurda è che questa sopraggiunge in concomitanza con il suicidio della scrittrice, che ne era per giunta al corrente, e molti - critici, biografi e amici - hanno visto in essa la causa scatenante. Mentre nel libro la gravidanza dell'amante non esiste, e si adduce invece tra i motivi del folle gesto nientepopodimeno che il cattivo tempo! Ma ci rendiamo conto?
Ora va bene tutto, la libertà di ogni autore, il diritto alla fantasia, e chi più ne ha più ne metta, ma teniamo ben presente che si sta parlando del suicidio reale di una persona reale.
Non di personaggi letterari che possiamo far agire come ci pare e piace. Non si può omettere ciò che non ci aggrada, e inventare di sana pianta ciò che avremmo preferito, in nome della sacra dea della letteratura. Non se i nostri personaggi sono esistiti per davvero!
A tal proposito occorre precisare che la Palmen, a termine del suo scritto, afferma di aver consultato molte biografie di Ted Hughes, nonché buona parte della sua produzione poetica, e in seconda battuta anche quella della consorte. A maggior ragione, in considerazione di ciò, pare inverosimile che le siano sfuggiti accadimenti così importanti, o che nessuna delle sue fonti li citasse.
Tralasciando adesso tutta questa controversia, il romanzo, indipendentemente da quanta verità racchiuda al suo interno, ha un forte impatto sul lettore, come potrete immaginare.
Si tratta di una lettura impegnativa, che prende molto a livello emotivo, e che proprio per questo motivo scorre lenta. Ogni tanto si sente il bisogno di staccare, per non sentirsi trascinati.
Più si va avanti, più si ha la percezione di essere travolti in un vortice, in un oceano di agonia e disperazione che, si sa già, avrà fine solo nel peggiore dei modi.
Più si va avanti, più si avvicina la data clou, l'addio a Sylvia: la poetessa, la scrittrice, la mamma, la moglie, la figlia, la donna.
Considerazioni:
Prima di iniziare questo libro, conoscevo la coppia Hughes-Plath solo per sentito dire.
Sapevo della loro produzione poetica, pur non avendola letta, e conoscevo purtroppo la tragica fine della scrittrice.
Mentre leggevo il romanzo della Palmen, ho sentito l'esigenza di approfondire la mia conoscenza sui due autori e la loro storia d'amore.
Ho letto molto: biografie, interviste di amici e conoscenti, gli articoli dell'epoca e soprattutto le poesie di entrambi. Un po' per amor di verità, un po' per dovere - per poter dare un giudizio quanto più obiettivo possibile - un po' per curiosità.
Soprattutto a inizio lettura, ero stata catturata dalla folle alchimia fra i due, dalla fragilità di lei, e dal costante impegno del suo lui. Il loro vivere di poesia e passeggiate nella natura, viaggi improvvisati da un posto all'altro, cenacoli letterari, meditazioni e esplorazioni della psiche.
Ho subito sentito una forte empatia con entrambi i personaggi. Capivo il senso di responsabilità del giovane Ted nei confronti della sua innamorata, e la dedizione nel calmare i suoi nervi e lenire le sue angosce. E a maggior ragione provavo pena per la donna intrappolata in un incubo continuo, incapace di sfuggire da se stessa e trovare pace.
Purtroppo, con il proseguire della narrazione la situazione cambia. Si pone sempre più l'accento sul comportamento amorevole dello scrittore - come se non fosse un esplicito dovere di un marito occuparsi del benessere della sua sposa - mentre gli eccessi d'ira e di gelosia della Plath, il più delle volte, non vengono più riportati come sintomi di una reale patologia, ovvero la depressione e il disturbo bipolare da cui era affetta, ma come meri tentativi di attirare l'attenzione.
Man mano Sylvia non è più la donna estrosa ma l'aguzzino che vuole tenere prigioniero il suo uomo, lontano da chiunque possa privarla dell'affetto a lei destinato, e lui rimane il marito premuroso pronto a giustificare ogni atteggiamento fuori dalle righe.
Ovviamente io non posso sapere come stessero realmente le cose, ma devo ammettere che mi è parsa una visione un tantino fuorviante, pendente tutta dalla parte maschile.
Se in principio della Plath si evidenziavano luci ed ombre, come è giusto che sia, in tutte le altre pagine il suo personaggio va alla deriva, diventando pura ossessione e deliri. Una ragazzina piagnucolosa, sempre aggrappata al suo prode guerriero.
Per giunta il tradimento del poeta viene giustificato dalla mancanza di libertà, quasi fosse una scelta obbligata, uno scenario provocato dalla stessa moglie, a causa dell'eccessiva gelosia, fino ad allora ingiustificata.
Inutile dirvi quanto io abbia odiato questa interpretazione, che fa degli uomini dei manichini nelle mani delle loro donne, incapaci delle loro scelte e delle loro azioni, e delle mogli delle megere incattivite.
E se pensate che sia finita qui, vi sbagliate, perché improvvisamente il tradimento e anche l'abbandono sono ulteriormente motivati come un favore nei confronti della Plath che - improvvisamente divenuta una donna forte, determinata e autonoma (quando fino ad un paio di pagine prima era l'esatto contrario) - avrebbe potuto finalmente liberare il suo io poetico.
Quanta generosità! Che uomo di buon cuore questo Ted Hughes -.-'
Che poi io vorrei capire come può un uomo innamorato, - perché così si professa fino all'ultimo il protagonista, nonostante le amanti - ben consapevole degli scompensi emotivi che un minimo gesto potrebbe causare nella moglie malata, arrivare addirittura a tradirla, senza pesare le eventuali conseguenze? Mah.
Va beh, scusate la lunga digressione, volta sostanzialmente a dirvi che non ho affatto gradito come è stato gestito dalla scrittrice questo ritratto di coppia, in quanto incoerente, e per di più non rispondente del tutto ai fatti.
Addirittura il suicidio di Assia Wevill - divenuta in seguito la compagna effettiva di Hughes - avvenuto a pochi anni di distanza da quello della Plath e con la medesima modalità (incredibile ma vero), non viene mica ricondotto alle possibili angherie di un uomo forte e sicuro di sé nei confronti di donne instabili emotivamente (o perlomeno alla predilezione consapevole del poeta per donne evidentemente fragili). Ma no, si tratta ovviamente della vendetta post-mortem della malvagia Sylvia, che non poteva accettare che il suo amato avesse altre consorti dopo di lei!
Giusto per farvi capire la narrazione super partes ╯°□°)╯︵ ┻━┻
Nella morte mia moglie si rivelò - come mia Euridice e come artefatto letterario - un'avversaria più pericolosa che non in vita.
Con una macabra attenzione per i dettagli, nel giro di sette anni la storia si era ripetuta, affinché io, sognatore lento ad apprendere, imparassi ad ogni costo una lezione. Poiché questo non era accaduto, mi privò un'altra volta della donna che mi stava a cuore, mi punì doppiamente portandomi via la figlia più piccola e, tre mesi dopo, anche mia madre.
Con una macabra attenzione per i dettagli, nel giro di sette anni la storia si era ripetuta, affinché io, sognatore lento ad apprendere, imparassi ad ogni costo una lezione. Poiché questo non era accaduto, mi privò un'altra volta della donna che mi stava a cuore, mi punì doppiamente portandomi via la figlia più piccola e, tre mesi dopo, anche mia madre.
Mi spiace pensare che, chi ha dato per scontato che la versione della Palmen corrispondesse grossomodo alla verità, magari ha elaborato impressioni errate su tutta la vicenda, e quindi una simpatia spropositata per il marito e poca comprensione nei confronti di una donna descritta essenzialmente come eccessiva in tutto, costantemente avvilita e collerica.
Se l'autrice invece non avesse avuto la pretesa di raccontare la versione di una persona realmente esistita, o perlomeno avesse precisato di aver infarcito i fatti con particolari pretestuosi, non avrei avuto nulla da ridire. Certo, più leggevo e più mi ritrovavo e compatire la protagonista femminile e a detestare lui e il suo costante vittimismo - il contrario di ciò che avrebbe voluto la Palmen suppongo - ma non lo definirei un difetto, anche perché, forse proprio per questo motivo mi sono sempre sentita coinvolta nella storia. Il che è un bene.
Inoltre, devo ammettere che alcuni passaggi sono molto profondi e coinvolgenti, anche il mea culpa finale dell'anziano Ted, per quanto poco credibile.
Chiunque abbia perduto qualcuno, della morte conosce la pena del guardarsi a ritroso, la conta dei giorni e delle ore finali, il marcare nomi e stagioni con una croce nera, la consapevolezza quasi intollerabile che proprio quel lunedì, quel mese di maggio, quella primavera, quel Natale, siano stati gli ultimi vissuti dal proprio caro.
E che lui stesso non lo sapesse, che nessuno lo sapesse.
Ogni aprile intorno a Court Green vedo i narcisi rinascere a migliaia dalla terra, indifferenti al destino degli uomini, ciechi e inarrestabili nell'ubbidire all'istinto di aprirsi una via, dal buio sottosuolo verso la luce, per poter danzare nel vento come eleganti ballerine.
E ogni anno penso al suo ultimo aprile, al modo in cui per la prima volta - e poi mai più - salutò con grida ammirate e insieme timorose quel dono giallo dorato di smisurata bellezza.
E che lui stesso non lo sapesse, che nessuno lo sapesse.
Ogni aprile intorno a Court Green vedo i narcisi rinascere a migliaia dalla terra, indifferenti al destino degli uomini, ciechi e inarrestabili nell'ubbidire all'istinto di aprirsi una via, dal buio sottosuolo verso la luce, per poter danzare nel vento come eleganti ballerine.
E ogni anno penso al suo ultimo aprile, al modo in cui per la prima volta - e poi mai più - salutò con grida ammirate e insieme timorose quel dono giallo dorato di smisurata bellezza.
In generale posso dire di essermi sentita quasi sempre partecipe, talvolta anche troppo. Mi capitava di sentire l'esigenza di staccare e fare altro. Le tematiche trattate sono molto forti, e troppo comuni per non sentirsi toccati. Altre volte invece mi succedeva di fermare la lettura per mettermi a leggere qualche poesia di entrambi gli scrittori, per cercare di avvicinarmi al loro mondo.
In un modo o nell'altro devo ammettere che questa lettura, nonostante le pecche, mi ha lasciato un segno. Non è un caso se il romanzo "La campana di vetro", l'unico scritto in prosa della Plath, è già finito in wishlist.
Per di più, indipendentemente dai personaggi e il loro vissuto, credo sia utile, ed anche interessante per il lettore, affrontare la tematica della depressione e dei disturbi psichici in generale, di ciò che si prova vedendo la persona che ami finire nel tunnel, di ciò che si può fare per riuscire a salvarla, di ciò che si può fare per non sprofondarci dentro e di ciò che rimane quando è ormai troppo tardi.
Ringrazio la casa editrice Iperborea per avermi fornito una copia di questo romanzo
il mio voto per questo libro