Titolo: Molto forte, incredibilmente vicino
Titolo originale: Extremely loud & incredibly close
Titolo originale: Extremely loud & incredibly close
Autore: Jonathan Safran Foer
Editore: Guanda
Data di pubblicazione: 2007
Pagine: 384
Prezzo: 13,00 €
Trama:
Oskar, un newyorkese di nove anni, ha perso il padre nell'attacco alle Torri Gemelle.
Per non soccombere sotto il peso del dolore si aggrappa alle proprie risorse, cerca conforto nella fantasia e nella curiosità, più che nell'abbraccio di chi gli è rimasto.
Un giorno, non troppo per caso, in un vaso azzurro trovato nell'armadio del padre scopre una busta che contiene una chiave. Sul retro della busta c'è una scritta: "Black".
Che serratura apre quella chiave? E se Black è un nome, chi è Black? Per scoprirlo Oskar intende bussare alla porta di tutti i Mr e Mrs Black della città: forse uno di loro sa qualcosa, conosce un segreto che può farlo sentire più vicino al padre. E se il viaggio attraverso i cinque distretti di New York non gli riporterà chi se ne è andato per sempre, forse gli recherà altri doni...
Recensione:
Scrivere di questo libro non è affatto facile, come non facile è stata la sua lettura.
Quella che Jonathan Safran Foer ci racconta è una storia complicata e straziante, resa ancora più complessa dal modo in cui sceglie di raccontarcela.
I protagonisti di questo libro sono tre.
Oskar Schell, un ragazzino di nove anni, che attraverso la sua voce racconta il dolore provato dalla scomparsa improvvisa di suo padre, morto 11 settembre 2001, durante l'attentato alle torri gemelle, e i suoi nonni paterni.
Sua nonna (la madre del padre di Oskar), si racconta al lettore, tramite delle lettere indirizzate a suo nipote, Oskar.
Ogni capitolo a lei dedicato, quindi ogni sua lettera, è intitolata "I miei sentimenti".
Anche il nonno, Thomas Shell (marito della nonna su citata e padre del papà di Oskar), si racconta tramite delle lettere, queste sono prima indirizzate a: "mio figlio non nato", successivamente sono indirizzate a: "mio figlio", e la sua ultima lettera è indirizzata ad Oskar.
Tre storie e tre vite tormentate da incubi e paure, allo stesso tempo simili e diverse, che hanno come punto in comune la paura di vivere, ma quello che differenzia ciascun personaggio è il modo in cui ognuno affronta o soccombe ai suoi timori.
Il libro si apre con il racconto di Oskar.
Lui aveva un rapporto molto speciale con suo padre, ed è molto bello leggere di loro attraverso i suoi ricordi.
Dopo la perdita Oskar non è più lo stesso, è tormentato da numerose fobie che lo perseguitano e da un senso di colpa misterioso che lo attanaglia e gli impedisce di perdonare se stesso e gli altri.
Un giorno, cercando nello studio di suo padre un modo per ravvivare il suo ricordo, sentendo il suo profumo e toccando le sue cose, scopre in un vaso blu una piccola chiave misteriosa, contenuta all'interno di una busta bianca con su scritto semplicemente "Black".
Da qui parte per lui una forsennata ricerca per ritrovare la serratura corrispondente a quella chiave e il suo possessore.
Un modo questo, per sentirsi in qualche modo nuovamente vicino a suo padre, per tenerlo ancora accanto a sé.
Il capitolo successivo è un'incognita.
Si apre con il titolo "I miei sentimenti" e per un bel pezzo della lettura non si capisce chi stia parlando, né di cosa.
Stessa cosa vale per il capitolo successivo, che si apre con il titolo "Perché non sono dove siete voi".
In ogni lettera il nonno e la nonna raccontano un pezzo della loro storia, in una danza tra presente e passato.
Scopriamo di come si sono conosciuti, di come si sono persi e successivamente ritrovati per poi perdersi ancora.
Di come il nonno ha perso la capacità di parlare, isolandosi ancora di più in se stesso e dentro quaderni di carta in cui rinchiude i suoi pensieri e la sua vita.
Scopriamo di come la nonna, persa la sua famiglia in Germania, durante il bombardamento di Dresda avvenuto poco dopo la fine della seconda guerra mondiale, si sia trasferita in America e dopo anni di solitudine, si sia lasciata andare ad un amore che sapeva non essere diretto a lei. Di come comunque lo abbia custodito come qualcosa di suo e prezioso, nella speranza che un giorno ne fosse destinataria lei, e lei soltanto.
E la troviamo, una volta abbandonata da quell'uomo che forse non l'ha mai realmente amata, riversare tutto il suo amore (anche in maniera eccessiva) sul suo nipotino, a cui spesso augura di non amare mai nessuno tanto quanto lei ama lui.
Il libro prosegue così, secondo questo ritmo di alternanza nella narrazione, come un passaggio del testimone, che aumenta la confusione nella lettura, in una storia (che è in realtà un insieme di tre storie, tre vite), narrata in maniera altrettanto dispersiva e confusionaria.
Dicendo questo non voglio fare una critica al modo di scrivere dello scrittore, in quanto credo che quello di confondere e spiazzare il lettore sia stato un suo specifico intento, sta di fatto però che la lettura in questo modo risulta meno scorrevole, più intricata e fastidiosa e perciò meno emozionante.
La storia di Oskar e della chiave, che avrebbe dovuto essere la protagonista, in questo modo diventa una storia di contorno alle altre, che pur essendo interessanti non sono altrettanto coinvolgenti.
Considerazioni:
Ho voluto leggere questo libro perché il film omonimo mi aveva emozionato tantissimo, inoltre ero molto curiosa di vedere come la storia fosse raccontata su carta, e se era descritta con maggiori particolari ogni famiglia "Black" visitata da Oscar durante la sua spasmodica ricerca alla serratura.
Purtroppo, anche se capita di rado, anche questo si è rivelato uno dei casi in cui ho nettamente preferito il film al libro.
Come ho detto nella recensione, il raccontare le storie dei nonni ha tolto spazio ed importanza a quella più bella e toccante, che invece nella trasposizione cinematografica ha trovato ampio respiro.
Avrei preferito leggere più del rapporto tra Oskar e suo padre e avrei preferito farlo senza interruzioni che, inevitabilmente, tolgono pathos al racconto.
Di contro avrei preferito leggere molto meno dei nonni... soprattutto alcuni contenuti all'interno delle lettere della nonna (che ricordiamolo, erano indirizzate ad Oskar!!! Suo nipote!) li avrei volentieri risparmiati, sia a me stessa che al povero Oskar, che mi sono immaginata, poverino, tutto imbarazzato e confuso a leggere particolari della vita sessuale dei suoi nonni e a domandarsi "Ma la nonna che si è bevuta? Perché mi scrive certe cose? Cosa me ne dovrebbe fregare?"
Insomma ho trovato molte lettere della nonna superflue e imbarazzanti, e a mio parere molto inverosimili, se pensiamo a chi erano dirette.
Molto tenere erano invece le parti in cui la nonna parlava del suo rapporto con la sorella Anna, in particolar modo mi hanno colpito queste parole:
"La notte prima di perdere tutto era stata una notte come tutte le altre.
Anna e io ci eravamo tenute sveglie a vicenda fino a molto tardi.
Ridevamo. Due sorelline a letto sotto il tetto di casa della loro infanzia.
Il vento alla finestra. Cos'è che può meritare di meno di essere distrutto?
Pensavo che saremmo rimaste sveglie per tutta la notte. Per il resto della nostra vita.
Gli intervalli tra le nostre parole aumentavano.
Diventò difficile dire quando stavamo parlando e quando tacevamo.
I peli delle nostre braccia si toccavano. Era tardi ed eravamo stanche.
Credevamo che ci sarebbero state altre notti.
Il respiro di Anna cominciò a rallentare, ma io volevo parlare ancora.
Si voltò su un fianco.
Le dissi: Voglio dirti una cosa.
Rispose: Puoi dirmela domani.
Non le avevo mai detto quanto le volevo bene.
Era mia sorella.
Dormivamo nello stesso letto.
Non era mai il momento giusto per dirlo.
Non era mai necessario.
I libri nel capanno di mio padre sibilavano.
Le lenzuola si alzavano e ricadevano attorno a me per il respiro di Anna.
Pensai di svegliarla.
Ma non era necessario.
Ci sarebbero state altre notti.
E come si fa a dire ti voglio bene a una persona a cui vuoi bene?
Mi voltai su un fianco e mi addormentai vicino a lei.
Ecco il senso di tutto quello che ho cercato di dirti, Oskar.
E' sempre necessario.
Ti voglio bene,
La nonna."
Anna e io ci eravamo tenute sveglie a vicenda fino a molto tardi.
Ridevamo. Due sorelline a letto sotto il tetto di casa della loro infanzia.
Il vento alla finestra. Cos'è che può meritare di meno di essere distrutto?
Pensavo che saremmo rimaste sveglie per tutta la notte. Per il resto della nostra vita.
Gli intervalli tra le nostre parole aumentavano.
Diventò difficile dire quando stavamo parlando e quando tacevamo.
I peli delle nostre braccia si toccavano. Era tardi ed eravamo stanche.
Credevamo che ci sarebbero state altre notti.
Il respiro di Anna cominciò a rallentare, ma io volevo parlare ancora.
Si voltò su un fianco.
Le dissi: Voglio dirti una cosa.
Rispose: Puoi dirmela domani.
Non le avevo mai detto quanto le volevo bene.
Era mia sorella.
Dormivamo nello stesso letto.
Non era mai il momento giusto per dirlo.
Non era mai necessario.
I libri nel capanno di mio padre sibilavano.
Le lenzuola si alzavano e ricadevano attorno a me per il respiro di Anna.
Pensai di svegliarla.
Ma non era necessario.
Ci sarebbero state altre notti.
E come si fa a dire ti voglio bene a una persona a cui vuoi bene?
Mi voltai su un fianco e mi addormentai vicino a lei.
Ecco il senso di tutto quello che ho cercato di dirti, Oskar.
E' sempre necessario.
Ti voglio bene,
La nonna."
Ho inoltre apprezzato molto le lettere del nonno indirizzate ai suoi figli, il modo in cui descrive come e quando ha smesso di parlare, il modo in cui le parole lo hanno man mano abbandonato.
Anche nelle sue lettere, di tanto in tanto, c'è descritto qualche particolare che un figlio preferirebbe non leggere, ma se pensiamo che le sue, erano lettere scritte soprattutto a se stesso e che mai ha avuto la volontà di consegnare al suo interlocutore, tutto diventa più plausibile.
In entrambe le storie è evidente quanto quasi tutti i problemi personali, e nel proprio rapportarsi con se stessi e con gli altri, siano stati causati dai rimorsi e dalle cose non dette.
Le parti dedicate ad Oskar sono ovviamente le mie preferite, e mi hanno fatto venire la voglia di riguardare il film.
Ho trovato Jonathan Safran Foer molto capace a descrivere i pensieri e le angosce di un ragazzino così traumatizzato.
Rimprovera la madre che tenta di rifarsi una vita e rimprovera se stesso di essere così severo con lei e di non riuscire, nonostante gli sforzi, ad andare avanti.
"«Mi manca papà.»
«Anche a me.»
«Davvero?»
«Certo.»
«Ma ti manca sul serio?»
«Come puoi chiedermelo?»
«È che non ti comporti come se ti mancasse proprio tanto!»
«Cosa dici?»
«Secondo me lo sai cosa dico.»
«No, non lo so.»
«Ti sento quando ridi.»
«Mi senti quando rido?»
«In soggiorno. Con Ron.»
«Tu credi che papà non mi manchi perché ogni tanto faccio una risata?»
Mi sono girato sul fianco, staccandomi da lei.
Mi ha detto: «E piango tanto, sai?»
«Io non ti vedo piangere tanto.»
«Forse perché non voglio che mi veda.»
«E perché?»
«Perché non fa bene a nessuno dei due.»
«Sì, invece.»
«Io voglio che la vita continui.»
«Ma quanto piangi?»
«Quanto?»
«Sì... un cucchiaio? Una tazza? Una vasca da bagno? Mettendo insieme tutte le lacrime.» «Non è così che va.»
«E come va?»
Ha risposto: «Sto cercando dei modi per essere felice. E quando rido sono felice».
Le ho detto: «Io invece non sto cercando dei modi per essere felice, e non ne cercherò mai».
E lei: «Ma dovresti».
«Perché?»
«Perché papà ti vorrebbe felice.»
«Papà vorrebbe che mi ricordassi di lui.»
«Perché non ricordarlo ed essere felice?»
«Perché sei innamorata di Ron?»
«Come?»
«È chiaro che sei innamorata di lui, perciò voglio sapere: perché? Cos'ha lui di tanto speciale?»
«Oskar, non ti è mai venuto in mente che le cose potrebbero essere più complicate di quanto sembrano?»
«Mi viene in mente sempre.»
«Ron è un mio amico.»
«Allora promettimi che non ti innamorerai mai più.»
«Oskar, anche Ron sta passando un momento difficile. Ci aiutiamo a vicenda. Siamo amici.» «Promettimi che non ti innamorerai mai più.»
«Perché vuoi che ti faccia questa promessa?»
«O mi prometti che non t'innamorerai più, o io smetto di volerti bene.»
«Sei ingiusto.»
«Io non devo essere giusto! Sono tuo figlio!»
Ha fatto un sospiro enorme e mi ha detto: «Mi ricordi tanto papà».
E poi ho detto qualcosa che non avevo progettato di dire, non volevo dirla neanche. Mentre mi usciva dalla bocca, mi sono vergognato che si mischiasse con qualsiasi cellula di papà che potevo avere inspirato quando ero andato a visitare Ground Zero.
«Se avessi potuto scegliere, avrei scelto te!»
Lei mi ha guardato per un attimo, poi si è alzata ed è uscita dalla stanza. Avrei voluto che sbattesse la porta, ma non lo ha fatto. L'ha chiusa piano piano, come sempre. Ho sentito che non si allontanava."
«Anche a me.»
«Davvero?»
«Certo.»
«Ma ti manca sul serio?»
«Come puoi chiedermelo?»
«È che non ti comporti come se ti mancasse proprio tanto!»
«Cosa dici?»
«Secondo me lo sai cosa dico.»
«No, non lo so.»
«Ti sento quando ridi.»
«Mi senti quando rido?»
«In soggiorno. Con Ron.»
«Tu credi che papà non mi manchi perché ogni tanto faccio una risata?»
Mi sono girato sul fianco, staccandomi da lei.
Mi ha detto: «E piango tanto, sai?»
«Io non ti vedo piangere tanto.»
«Forse perché non voglio che mi veda.»
«E perché?»
«Perché non fa bene a nessuno dei due.»
«Sì, invece.»
«Io voglio che la vita continui.»
«Ma quanto piangi?»
«Quanto?»
«Sì... un cucchiaio? Una tazza? Una vasca da bagno? Mettendo insieme tutte le lacrime.» «Non è così che va.»
«E come va?»
Ha risposto: «Sto cercando dei modi per essere felice. E quando rido sono felice».
Le ho detto: «Io invece non sto cercando dei modi per essere felice, e non ne cercherò mai».
E lei: «Ma dovresti».
«Perché?»
«Perché papà ti vorrebbe felice.»
«Papà vorrebbe che mi ricordassi di lui.»
«Perché non ricordarlo ed essere felice?»
«Perché sei innamorata di Ron?»
«Come?»
«È chiaro che sei innamorata di lui, perciò voglio sapere: perché? Cos'ha lui di tanto speciale?»
«Oskar, non ti è mai venuto in mente che le cose potrebbero essere più complicate di quanto sembrano?»
«Mi viene in mente sempre.»
«Ron è un mio amico.»
«Allora promettimi che non ti innamorerai mai più.»
«Oskar, anche Ron sta passando un momento difficile. Ci aiutiamo a vicenda. Siamo amici.» «Promettimi che non ti innamorerai mai più.»
«Perché vuoi che ti faccia questa promessa?»
«O mi prometti che non t'innamorerai più, o io smetto di volerti bene.»
«Sei ingiusto.»
«Io non devo essere giusto! Sono tuo figlio!»
Ha fatto un sospiro enorme e mi ha detto: «Mi ricordi tanto papà».
E poi ho detto qualcosa che non avevo progettato di dire, non volevo dirla neanche. Mentre mi usciva dalla bocca, mi sono vergognato che si mischiasse con qualsiasi cellula di papà che potevo avere inspirato quando ero andato a visitare Ground Zero.
«Se avessi potuto scegliere, avrei scelto te!»
Lei mi ha guardato per un attimo, poi si è alzata ed è uscita dalla stanza. Avrei voluto che sbattesse la porta, ma non lo ha fatto. L'ha chiusa piano piano, come sempre. Ho sentito che non si allontanava."
Ho percepito la sua rabbia, la sua paura e la sua angoscia, ho capito i suoi rimorsi e il peso enorme causato dal suo senso di colpa, per non aver risposto a quell'ultima chiamata quella mattina del giorno più brutto.
«Posso dirti una cosa che non ho mai detto a nessuno?»
«Certo.»
«Quel giorno eravamo appena entrati quando ci hanno fatto uscire da scuola. Non ci hanno detto di preciso perché, solo che era successa una brutta cosa. Noi non abbiamo capito, credo. Oppure, non abbiamo capito che una brutta cosa poteva capitare a noi. Sono venuti tanti genitori a prendere i loro bambini ma io sono tornato a piedi, dato che la scuola è appena a cinque isolati da casa mia. Un mio amico mi ha detto che mi avrebbe telefonato, perciò sono andato subito a vedere la segreteria e la luce lampeggiava.
C'erano cinque messaggi. Tutti suoi.»
«Del tuo amico?»
«Del mio papà.»
Lui si è coperto la bocca con la mano.
«Diceva sempre che stava bene e che tutto sarebbe finito bene, e non dovevamo preoccuparci.»
Una lacrima gli è scesa sulla guancia e si è fermata sul dito.
«Però, la cosa che non ho mai detto a nessuno è questa. Dopo che ho ascoltato i messaggi, è squillato il telefono. Erano le 10.26. Ho guardato il codice di identificazione e ho visto che era il suo cellulare.»
«Oh, Dio.»
«Per favore, puoi tenere una mano su di me, così riesco a finire la storia?»
«Ma certo» ha detto, e ha spinto la poltrona attorno alla scrivania per venirmi vicino.
«Non ho alzato la cornetta. Non ce la facevo. Continuava a suonare, e io non riuscivo a muovermi. Volevo alzarla, ma non ci riuscivo. È partita la segreteria, e ho sentito la mia voce: Salve, risponde casa Schell. Ecco il fatto del giorno di oggi: Nella Jacuzia, che è in Siberia, fa talmente freddo che il fiato si gela con uno scricchiolio che chiamano il sussurro delle stelle. Nelle giornate estremamente fredde, le città sono coperte da una nebbia formata dal respiro degli uomini e degli animali. Siete pregati di lasciare un messaggio.
C'è stato un bip. Poi ho sentito la voce di papà. "Ci sei? Ci sei? Ci sei?"
Lui aveva bisogno di me e io non riuscivo ad alzare la cornetta. Non ci riuscivo. Non ce la facevo. "Ci sei?"
Lo ha domandato undici volte. Lo so, perché le ho contate.
È una di più di quelle che posso contare sulle dita.
Perché continuava a chiederlo? Aspettava che qualcuno tornasse a casa? E perché non chiedeva "C'è qualcuno?"... "Ci sei?" vuol dire una persona sola.
A volte penso che sapeva che ero lì. Forse tentava solo di darmi il tempo per trovare il coraggio di alzare la cornetta. E poi, c'era troppo spazio fra una domanda e l'altra.
Ci sono quindici secondi fra la terza e la quarta, ed è l'intervallo più lungo.
In sottofondo si sente la gente che urla e che piange. E poi rumore di vetri che si rompono, ed è anche per questo che mi chiedo se stavano saltando giù.
Ci sei? Ci sei? Ci sei? Ci sei? Ci sei? Ci sei? Ci sei? Ci sei? Ci sei? Ci sei? Ci
E dopo si è interrotto.»
«Certo.»
«Quel giorno eravamo appena entrati quando ci hanno fatto uscire da scuola. Non ci hanno detto di preciso perché, solo che era successa una brutta cosa. Noi non abbiamo capito, credo. Oppure, non abbiamo capito che una brutta cosa poteva capitare a noi. Sono venuti tanti genitori a prendere i loro bambini ma io sono tornato a piedi, dato che la scuola è appena a cinque isolati da casa mia. Un mio amico mi ha detto che mi avrebbe telefonato, perciò sono andato subito a vedere la segreteria e la luce lampeggiava.
C'erano cinque messaggi. Tutti suoi.»
«Del tuo amico?»
«Del mio papà.»
Lui si è coperto la bocca con la mano.
«Diceva sempre che stava bene e che tutto sarebbe finito bene, e non dovevamo preoccuparci.»
Una lacrima gli è scesa sulla guancia e si è fermata sul dito.
«Però, la cosa che non ho mai detto a nessuno è questa. Dopo che ho ascoltato i messaggi, è squillato il telefono. Erano le 10.26. Ho guardato il codice di identificazione e ho visto che era il suo cellulare.»
«Oh, Dio.»
«Per favore, puoi tenere una mano su di me, così riesco a finire la storia?»
«Ma certo» ha detto, e ha spinto la poltrona attorno alla scrivania per venirmi vicino.
«Non ho alzato la cornetta. Non ce la facevo. Continuava a suonare, e io non riuscivo a muovermi. Volevo alzarla, ma non ci riuscivo. È partita la segreteria, e ho sentito la mia voce: Salve, risponde casa Schell. Ecco il fatto del giorno di oggi: Nella Jacuzia, che è in Siberia, fa talmente freddo che il fiato si gela con uno scricchiolio che chiamano il sussurro delle stelle. Nelle giornate estremamente fredde, le città sono coperte da una nebbia formata dal respiro degli uomini e degli animali. Siete pregati di lasciare un messaggio.
C'è stato un bip. Poi ho sentito la voce di papà. "Ci sei? Ci sei? Ci sei?"
Lui aveva bisogno di me e io non riuscivo ad alzare la cornetta. Non ci riuscivo. Non ce la facevo. "Ci sei?"
Lo ha domandato undici volte. Lo so, perché le ho contate.
È una di più di quelle che posso contare sulle dita.
Perché continuava a chiederlo? Aspettava che qualcuno tornasse a casa? E perché non chiedeva "C'è qualcuno?"... "Ci sei?" vuol dire una persona sola.
A volte penso che sapeva che ero lì. Forse tentava solo di darmi il tempo per trovare il coraggio di alzare la cornetta. E poi, c'era troppo spazio fra una domanda e l'altra.
Ci sono quindici secondi fra la terza e la quarta, ed è l'intervallo più lungo.
In sottofondo si sente la gente che urla e che piange. E poi rumore di vetri che si rompono, ed è anche per questo che mi chiedo se stavano saltando giù.
Ci sei? Ci sei? Ci sei? Ci sei? Ci sei? Ci sei? Ci sei? Ci sei? Ci sei? Ci sei? Ci
E dopo si è interrotto.»
Non aver risposto al telefono per quell'ultima volta, non aver detto addio, o anche un solo: "Papà, si, ci sono, ti voglio bene".
Mi sono ritrovata a chiedermi "cosa avrei fatto al posto suo?" e non ho saputo darmi una risposta, perché la paura spesso immobilizza e rende incapaci di agire, spero solo di non dovermelo chiedere mai.
Un filo conduttore unisce queste tre storie.
Il lutto, il trauma, la paura di tornare a vivere, il senso di colpa per non aver avuto il coraggio di dire o fare qualcosa.
La morale di questo libro è quindi questa: non è mai il momento sbagliato per dire quello che si prova, e non sarà mai troppo presto, perché non sappiamo se l'occasione ci si ripresenterà, e quando c'è si dovrebbe coglierla al volo.
Confronto con il film:
Come ho già spiegato nella recensione, credo che il film in questo caso superi ampiamente il libro da cui è stato tratto.
Meno dispersivo, più essenziale e, cosa più importante, decisamente più emozionante.
La storia nel film è circoscritta al rapporto padre-figlio, concentrata quindi più su Oskar e il suo dolore, e tutto il contorno delle vicissitudini dei nonni è tralasciato, e questa per me è stata una scelta vincente.
Ho trovato superlativa l'interpretazione di Thomas Horn, il bambino che interpreta Oskar e che, a quanto ho letto, era alla sua prima esperienza nel cinema.
Magistrale come sempre Tom Hanks, che non delude mai.
Il film ha emozionato tantissimo anche me, ma non ero particolarmente attratta dal libro. Ora ci ho ripensato, grazie alla tua recensione, e lo metto in WL.
RispondiEliminaCiao!
RispondiEliminaNon ho visto il film né letto il libro, ma tra i due, dopo la tua recensione, credo proprio che mi butterò sul film.
La trama è sicuramente difficile, forte e lo stile dell'autore a quanto pare non agevola la lettura.
Mi ha colpita la citazione della nonna riguardo la sorella, sul ti voglio bene. Sono parole che risparmiamo sempre, ma sono così belle e importanti che dovremmo dircele tutti i giorni :-)
Ciao e buon weekend
Io per ora ho letto solo il libro, qualche anno fa, e mi è piaciuto tantissimo, forse anche per la sua costruzione tanto particolare! Certo, è stata una lettura un po' impegnativa, ma anche indimenticabile!
RispondiEliminaSpero di vedere presto il film, che sarà un modo alternativo di raccontare la storia centrale, ovvero un modo più emozionante e lineare!
Da come ne parli so che non mi deluderà, ho ancora più fretta di vederlo ora!! ^_^