venerdì 6 giugno 2014

Intervista a Rebecca Domino, autrice del romanzo "La mia amica ebrea"

Salve avventori!
Oggi il Café Littéraire ha il piacere di intervistare Rebecca Domino, un'autrice emergente, capace di mescolare nei suoi libri temi importanti e di estremo realismo, con emozionanti storie di fantasia.
Pochi giorni fa ho recensito per il blog il suo primo romanzo (potete leggere la recensione qui), che in maniera delicata dipinge l'amicizia tra due quindicenni, un'ariana ed un'ebrea, ai tempi della Seconda Guerra Mondiale.
Un libro emozionante e ben scritto, che consiglio vivamente di leggere.
Prima di lasciarvi all'intervista, colgo l'occasione per ringraziare nuovamente Rebecca per la gentilezza e la disponibilità dimostrate.
Detto ciò, vi auguro una buona lettura!

♥ Ciao Rebecca!
Ti ringrazio di avermi concesso quest'intervista.
Ho avuto modo di leggere ed apprezzare il tuo romanzo d'esordio "La mia amica ebrea". 
Recentemente hai pubblicato anche il tuo secondo lavoro "Fino all'ultimo respiro".
Prima di concentrarci sui tuoi libri mi piacerebbe sapere qualcosa di te e del tuo amore per la scrittura.
Com'è nato e quando hai capito di poter fare della tua passione un mestiere?

Prima di tutto grazie per ospitarmi nel tuo blog! 
La passione per la scrittura è nata con me. Ho cominciato a scrivere racconti alle scuole elementari e durante gli anni delle medie mi dedicavo a questa mia passione con la costanza di una tredicenne, poi purtroppo nel corso della vita ho messo da parte la scrittura per dedicarmi a quelle che credevo essere altre passioni e l’ho riscoperta circa tre anni fa quando, dopo un anno vissuto a Londra, sono tornata in Italia, mi sono seduta al tavolino e ho ricominciato a scrivere. 
Non so se si può dire che ho fatto della mia passione un mestiere, perché con un mestiere si guadagna abbastanza per coprire tutte le spese quotidiane, ma di sicuro ho fatto della scrittura il punto cruciale della mia vita e ora è la mia unica passione. So che non la metterò più da parte, perché grazie alla scrittura posso raccontare storie di cui parliamo poco, posso dar voce a persone dimenticate, posso emozionarmi e far emozionare e quindi so che scriverò finché potrò.

♥ Immagino che tu sia anche un'accanita lettrice.
Quali sono gli scrittori che credi abbiano influenzato di più il tuo modo di scrivere?

Sì, mi piace leggere anche se, non lo nego, sono una lettrice molto esigente e i libri che mi sono piaciuti davvero si contano sulle dita di una mano. Non ci sono degli scrittori che hanno influenzato il mio modo di scrivere. Quando scrivo metto anima e cuore nel mio lavoro e sono i personaggi che si siedono davanti al computer e raccontano le loro storie quasi fossero delle testimonianze reali.

♥ Ci sono dei libri a cui sei particolarmente legata? E quali titoli ritieni siano "da leggere assolutamente"?

No, non ci sono libri cui sono particolarmente legata. 
Dunque, dei libri da “leggere assolutamente”… questa per me è una domanda molto difficile cui rispondere per il semplice fatto che, come ho accennato prima, non ci sono molti libri che mi hanno convinta davvero. Suggerirei di leggere almeno una volta nella vita “Il diario di Anna Frank” non tanto perché testimonia uno dei periodi storici più terribili della nostra Storia ma per il suo modo di vedere la vita, le cose e le persone, con cui sono spesso d’accordo. Per il resto, proprio non so… sicuramente consiglio di leggere i classici piuttosto che i romanzi dei giorni nostri, perché secondo me la maggior parte di questi manca di emozioni e di profondità. Oggi chiunque può scrivere un libro e pubblicarlo, farlo nel 1800 era diverso e penso che, per questo, se una persona decideva d’impiegare anni a scrivere, revisionare e cercare di far pubblicare un romanzo, credeva davvero nel suo lavoro e aveva una storia degna di nota da raccontare. Naturalmente non voglio fare di tutta l’erba un fascio, ma al momento trovo la situazione dei contemporanei un po’ desolante, quindi mi sento di consigliare “Il diario di Anna Frank”, i lavori di Jane Austen (specialmente “Orgoglio e pregiudizio”) e quelli di Louisa May Alcott (specialmente “Piccole donne” e gli altri volumi della serie).

♥ Parlando invece del tuo primo romanzo, "La mia amica ebrea", hai deciso di trattare un tema importante come quello dell'antisemitismo, evidenziandone anche gli aspetti meno noti, come quello dei cosiddetti "eroi silenziosi".
Nel corso della narrazione hai inoltre approfondito maggiormente gli effetti psicologici della persecuzione rispetto a quelli fisici. Perché questa scelta?

Prima di cominciare a svolgere le ricerche per il romanzo, mi sono sempre chiesta come fosse possibile che Hitler, una sola persona, fosse riuscito a tenere in pugno un’intera nazione e a mettere in moto quella macchinazione infernale contro gli ebrei in primis, ma generalmente contro chiunque non fosse dalla sua parte. 
Hitler cominciò la sua salita al potere molti anni prima dello scoppio della Seconda Guerra Mondiale e quando la Germania divenne un Paese spaventato e distrutto a causa degli effetti che la crisi americana del ’29 ebbe anche in Europa (e la Germania fu una delle nazioni che ne pagò maggiormente il prezzo) Hitler approfittò della disperazione dei cittadini per offrire loro possibili soluzioni, parole che poi non sono diventati fatti, ma di fronte al caos, alla povertà, alla fame la gente era disposta a credere a tutto e a tutti, anche ad Adolf Hitler. 
Questo è solo per dire che Hitler era un ottimo oratore e sapeva come manovrare le menti della gente. Allora, mi sono chiesta, che cosa voleva dire nascere e crescere nella Germania nazista? Perché se gli ebrei furono deportati da numerosissime nazioni e se la Seconda Guerra Mondiale coinvolse tanti Paesi diversi, la Germania era il fulcro del “lavoro” di Hitler. Tutti abbiamo sentito parlare dell’Olocausto e le testimonianze generalmente ricordano le vite e le morti degli ebrei. Naturalmente è fondamentale ricordare quanto gli ebrei hanno dovuto subire, senza alcun motivo, ma data la scarsezza d’informazioni in merito ero ancor più determinata a mostrare “l’altro lato dell’Olocausto”, specialmente quando mi sono imbattuta in alcune testimonianze di persone comuni che hanno salvato alcuni ebrei, o addirittura “solo” un ebreo. 
Queste persone erano tedesche. Sono rimasta subito affascinata dalla lotta morale che sicuramente dev'essere avvenuta dentro ogni tedesco che dubitava delle parole di Hitler. 
La propaganda hitleriana fu organizzata benissimo e Hitler fece in modo che fossero principalmente i giovani a essere indottrinati, egli usò i giornali, i cinema, le scuole, le attività sociali, tutto, per inculcare alla gente quello che lui reputava giusto, incluso l’odio verso gli ebrei. Si può dire che chi era dalla parte di Hitler poteva sopravvivere, tutti gli altri correvano dei gravi rischi di morire. Basta pensare al fatto che chiunque aiutasse gli ebrei correva il rischio di essere picchiato, deportato in un campo di concentramento oppure ucciso sul posto, e sto parlando anche di tedeschi. Penso che sia importante ricordare il coraggio di chi ha perso tutto per aiutare un altro essere umano, di chi – nonostante le minacce e il terrore di Hitler – non ha zittito la propria voce interiore ma, anzi, l’ha ascoltata e seguita. 
Penso che “gli eroi silenziosi” siano un esempio di come la razza umana possa essere altruista, di come dentro ognuno di noi ci siano dei semi di speranza, nobiltà d’animo e un senso di giustizia di cui si parla pochissimo, specialmente ai giorni nostri dove tutte le notizie sembrano essere incentrate sulle tragedie e sui comportamenti negativi dell’Uomo. 
Non ho scelto razionalmente di mostrare principalmente gli aspetti psicologici della vita nella Germania del 1943, nonostante il lato psicologico mi affascini sempre di più di quello fisico; diciamo che è stata una scelta naturale perché Seffi e la sua famiglia non corrono rischi imminenti di essere picchiati, deportati e via dicendo, quindi – a parte le ferite causate dalla caduta delle bombe – non corrono particolari rischi fisici. Psicologicamente, invece, ogni personaggio deve fare i conti con quello che avviene in Germania o direttamente nel suo quartiere, con quello che dice la propaganda e con quello che prova dentro di sé. Ho immaginato di essere una ragazzina ariana che, per una serie di eventi, si ritrova una coetanea ebrea in casa. Una ragazzina ariana che, come il resto della nazione, non sa far altro se non pensarla come Hitler e i suoi dubbi, invece di aiutarla, la fanno sentire più confusa. Questo è stato il punto di partenza del mio romanzo: scavare dentro la mente, l’anima e il cuore di una quindicenne cui è stato insegnato solo a odiare, e vederla mentre asseconda gli aspetti più nobili dell’animo umano e impara ad amare.

♥ Gli ebrei, nel tuo libro, sono impersonati dalla famiglia Binner.
Mentre Rina e Lisabette si mostrano rassegnate e quasi accettano di essere considerate inferiori ai tedeschi, Uriel e suo padre sembrano conservare il loro orgoglio.
In particolare il capofamiglia ripete ai figli che non devono mai vergognarsi di quello che sono, ma si rifiuta di indossare la stella che distingue gli ebrei dai tedeschi.
Il suo è solo un modo per proteggere la propria famiglia o il rifiuto di un'etichetta?

Rina e sua madre Lisabette non accettano di essere considerate inferiori ai tedeschi, ma questo lo provano soltanto interiormente. Dopo quello che hanno già dovuto subire, Lisabette pensa che sia meglio tenere la testa bassa, dimostrarsi umili e fare il possibile per passare inosservati e Rina, che è molto legata alla mamma, quasi senza rendersene conto assume il suo stesso atteggiamento. Dentro di sé, vorrebbe tornare a scuola e a fare tutte quelle attività che le vengono proibite solo perché ebrea, ma sa che non può e sa che gli ebrei vengono portati in dei campi di lavoro di cui la gente, allora, sapeva poco o niente. 
Uriel è il fratello maggiore di Rina ed è rimasto l’unico uomo in famiglia; essendo più grande, e più irascibile di carattere, non riesce a tenere la testa bassa come la sorella, inoltre, in quanto maschio, si sente in dovere di difendere sia la sorella minore sia la madre. 
Il signor Binner – che non conosciamo mai nel romanzo, ma di cui scopriamo varie cose grazie ai racconti di altri personaggi – ha insegnato ai figli a non vergognarsi di quello che sono e si e’ sempre rifiutato d’indossare la stella che distingueva gli ebrei dai tedeschi. Non lo faceva solo per proteggere la sua famiglia, ma anche per mostrare al mondo quello che pensava davvero, ovvero che gli ebrei non dovevano essere considerati inferiori né ai tedeschi né a nessun altro. Rina è d’accordo con gli insegnamenti del padre ma le cose sono peggiorate in fretta e sa che è pericoloso essere orgogliosi di essere ebrei e pensa che la cosa migliore da fare sia rimanere nascosti, in silenzio, sperando di non essere notati dal mondo e sperando che la guerra e le persecuzioni finiranno in fretta.


♥ Per quanto riguarda invece i tedeschi, se con Josepha pare che questi siano solo ignare vittime di una propaganda che promuove idee sbagliate, osservando invece i comportamenti di Ralf, disposto a denunciare la sua stessa famiglia, di Anja e Jutte, e soprattutto di Abelard, ci rendiamo conto di come siano spesso capaci di tradire chi amano in nome di questa ideologia.
Qual era dunque l'immagine che volevi dare di loro: semplici ingranaggi di un meccanismo più grande, o persone consapevoli delle loro azioni?

Entrambe le cose, perché penso che alcune persone, come Josepha, fossero confuse e si ritrovassero a dire di credere in Hitler e nei suoi pensieri solo perché sapevano che era la cosa giusta da fare, nel senso che, se si fossero opposte, avrebbero corso dei gravi rischi. 
Altre persone, come Ralf, facevano volontariamente parte della Gioventù Hitleriana ed erano consapevolmente d’accordo con quello che diceva Hitler. Nonostante il suo saper controllare le persone, penso che Hitler non avrebbe mai potuto fare quello che ha fatto se non avesse trovato dell’interesse spontaneo e genuino da parte di numerosissime persone. Purtroppo il fatto che molte persone, fra cui giovani, fossero disposte a denunciare i loro famigliari se avevano motivo di sospettare che fossero contro Hitler, è un’informazione che ho letto in varie testimonianze e che mi ha lasciata stupita per la crudeltà insita in una cosa del genere e che mi ha spinto a chiedermi che cosa passasse per la mente di un ragazzo di soli diciassette anni, qual è Ralf, per poter pensare di mandare a morire il suo stesso padre. 
Per quanto riguarda Josepha, ho immaginato che cosa avrei fatto io se fossi stata una quindicenne ariana nella Germania nazista: di sicuro, dentro di me, avrei pensato che in fondo gli ebrei sono persone come gli altri, ma sarei stata circondata dalla propaganda, tutti i miei conoscenti e anche alcuni dei miei famigliari avrebbero sostenuto Hitler e sarei stata ancora più confusa dall’atteggiamento di mio padre, costretto a sua volta a fingersi simpatizzante del partito. Avrei sentito parlare dei “campi di lavoro” e dentro di me avrei avuto paura degli ebrei perché proprio tutti avrebbero sostenuto che sono il male, che rappresentano la minaccia principale per la Germania. Non dobbiamo dimenticare, inoltre, che Josepha ha solo quindici anni e, per quei tempi, era ancora una bambina: la sua giovane età, mescolata alle scelte personali e di crescita che deve compiere, la rende ancora più confusa. I dubbi che ha in merito a quello che sente dire in giro le sembrano giusti ma quando sente i discorsi dell’altra gente non può fare a meno di pensare che siano sbagliati, perché nessun altro la pensa a quel modo. 
Che cos'è giusto e che cos'è sbagliato? Questa è una domanda cruciale che Josepha si pone durante tutto il romanzo, la cui risposta spesso poteva essere pericolosa, anche letale. Di solito quando si parla dell’Olocausto si pensa ai tedeschi come ai mostri che, in qualche modo, si sono macchiati le mani del sangue di tantissimi ebrei innocenti ma ho voluto raccontare le storie di persone comuni, che dei campi di sterminio sapevano poco o niente e che non vi hanno mai messo piede, di padri di famiglia, di giovani uomini, di madri, di ragazzine come Josepha, persone che si sono ritrovate loro malgrado protagoniste di uno dei periodi più complicati e terribili della Storia dell’umanità.

♥ Nel libro assistiamo al lento avvicinamento tra Rina e Josepha, e al cambiamento di quest'ultima. Se in principio la ragazza si mostra diffidente e insensibile, con il tempo scopriremo il suo lato più dolce.
Quali reazioni volevi suscitare nel lettore con questo personaggio?

Josepha è una ragazzina introspettiva, dolce e sognatrice, solo che il contesto in cui è nata e cresciuta la costringe spesso a essere spietata, anche se “solo” verbalmente. Come tutti i giovani è stata indottrinata da Hitler a pensare che gli ebrei fossero il male e, nonostante i suoi dubbi, Josepha deve credere a quelle parole, per evitare problemi. Quando la conosciamo all’inizio del romanzo, per lei gli ebrei sono solo mostri con cui non ha mai avuto dei rapporti sinceri e profondi. Prima dello scoppio delle leggi razziali conosceva delle compagne di scuola ebree, ma, come tutti gli altri ebrei che conosceva di vista o di cui aveva sentito parlare, queste sono sparite nel niente. 
L’arrivo della famiglia Binner e, in modo particolare, di Rina, porta un grande cambiamento nella sua vita, un cambiamento che però avviene in maniera lenta, fra mille dubbi e incomprensioni. Dato che vari tedeschi hanno aiutato degli ebrei, ho voluto accendere i riflettori su questi “eroi silenziosi” troppo spesso dimenticati e, al tempo stesso, ho voluto immaginare che cosa avrebbe provato una ragazzina come Josepha di fronte a Rina. 
Il lettore può vedere sin dalle prime scene fra le due ragazzine che queste hanno molte cose in comune, ma Josepha è cieca e lo stesso si può dire per Rina, che ormai ha imparato a non fidarsi troppo di nessuno, specialmente degli ariani. Con il mio romanzo voglio suscitare diverse emozioni e con il personaggio di Josepha in particolare voglio che il lettore si faccia un’idea di com’era la vita nella Germania nazista, perché attraverso Josepha si ritrova a vedere e vivere la quotidianità in una nazione governata da Hitler, dove sgarrare a quello che diceva la propaganda (anche di poco) poteva significare morire. 
Alcune lettrici mi hanno detto di aver provato antipatia per Josepha in certe parti del romanzo e ne sono contenta, perché io stessa, quando ho riletto il libro, mi sono ritrovata a odiarla quando, ad esempio, è già piuttosto amica di Rina eppure parla degli ebrei senza mostrare alcun rispetto per loro. Josepha però è molto giovane e confusa e, al contempo, gli “insegnamenti” propagandistici ormai fanno parte di lei e la ragazzina pensa determinate cose quasi senza rendersene conto, in maniera naturale, esattamente come si respira senza pensarci. Ecco perché, nonostante a un certo punto cominci a dubitare della cattiveria degli ebrei, a volte si ritrova a pensare e comportarsi come la nazista che le hanno insegnato a essere. Ho voluto suscitare emozioni contrastanti nei lettori: Josepha non è completamente nazista, come suo fratello Ralf, ma non è neanche completamente in disaccordo con quello che sente dire in giro. Il lettore a volte la odia e a volte prova simpatia o perfino pena per lei. Josepha è in continuo mutamento e ho voluto che le emozioni dei lettori mutassero con lei.

♥ Nelle tue pagine abbiamo modo di conoscere più di un personaggio femminile. 
Da Anja e Jutte che sognano di diventare grandi ed incontrare l'amore, a Josepha che si rifiuta di crescere e spera un giorno di diventare un'insegnante, a Trudi, la cui timidezza la spinge ad indossare sempre la maschera a gas. 
Ovviamente conosciamo anche Rina, incapace di serbare rancore, sua madre Lisabette e la madre di Josepha, le quali farebbero di tutto per proteggere le loro famiglie.
A quale di queste donne ti sei sentita più vicina?

Mi sento molto vicina a ognuna di loro. Tutti i personaggi nascono spontaneamente dentro di me e si fanno conoscere per quello che sono, pertanto non ho forzato nessuno di loro a comportarsi in un modo piuttosto che in un altro. Tutte le donne del mio romanzo (ma anche gli uomini) hanno delle caratteristiche che vanno subito all’occhio, come quelle che hai citato tu, ma durante il romanzo evolvono, anche in base alle situazioni che vivono. 
Dato che Josepha è la protagonista mi sento particolarmente legata a lei, volevo che fosse un modello positivo per le lettrici, specialmente per le più giovani, ma penso che tutte le donne del libro lo siano, perché vogliono il meglio per i loro cari e cercano di vivere nonostante gli orrori della guerra.

♥ A quale personaggio, se ce n'è uno, ti senti particolarmente legata?

Non c’è un personaggio cui mi sento particolarmente legata, se non Josepha per il semplice fatto che è la protagonista e ho avuto modo di conoscerla meglio, ma devo dire che sono affezionata a tutti i personaggi del romanzo, anche a quelli secondari o a quelli che appaiono in una scena soltanto, perché tutti insieme mi hanno aiutata a mostrare uno spaccato quotidiano della vita nella Germania nazista.

♥ Hai dipinto in modo molto forte la tragedia del bombardamento aereo di Amburgo.
Come ti sei preparata dal punto di vista storico per ricreare l'atmosfera di devastazione e paura, che predomina gli ultimi capitoli?

Ammetto che, prima di cominciare le ricerche per il romanzo, non avevo mai sentito parlare dell’Operazione Gomorra. Quando ho letto di quel terribile bombardamento ho immaginato le vite di persone qualunque, vite di persone come Josepha e i suoi cari, che cambiavano improvvisamente. 
Amburgo fu vittima di uno dei peggiori attacchi aerei di tutta la Storia e la cosa che mi ha colpito di più è stata la durata del bombardamento: non si parla di una o due notti, ma la città fu bombardata ininterrottamente dal 26 luglio al 3 agosto 1943. Alcuni quartieri furono presi più di mira rispetto ad altri ma in generale Amburgo ha vissuto per nove giorni sotto l’assedio delle bombe incendiarie inglesi. 
Ho visto dei video risalenti a quei terribili giorni, ho visto le fiamme che divoravano gli edifici e questi che a volte diventavano solo un ammasso di cenere, altre volte rimanevano parzialmente in piedi, come scheletri anneriti. Ho visto i disperati tentativi degli uomini di domare l’incendio con l’acqua e ho visto i cadaveri, spesso bruciati, riversi per le strade. Ho cercato testimonianze di persone che hanno vissuto l’Operazione Gomorra sulla loro pelle e ho inserito nel romanzo i particolari che mi sono sembrati più sconvolgenti o più toccanti. 
Ad esempio, quando Josepha vede una donna che brucia viva di fronte a lei, quasi fosse una fiaccola umana, non è frutto della mia fantasia ma purtroppo appartiene a una testimonianza reale. Allo stesso tempo, ho inserito altri momenti che sono frutto della mia fantasia ma che, chi lo sa, forse sono accaduti realmente, come la giovane madre che cammina sulla terra bruciata dal fuoco delle bombe cullando e cercando di portare in salvo il suo bambino, pur sapendo che è già morto. 
Mi definisco una persona molto empatica e ho fatto mio quel dolore, quella paura, quel rimanere a bocca aperta di fronte a tutta quella distruzione. Ho messo su carta i miei pensieri di fronte alle immagini che ho visto, per esempio non ho potuto fare a meno di notare che quel mare di fiamme dava un’immagine quasi pittoresca alla città e Josepha si chiede come sia possibile che a volte il male sia così bello. 
Josepha ha vissuto dentro di me per tutto il tempo della stesura del romanzo, era lei a raccontare la sua storia, quindi, aiutata dalle ricerche di cui ho parlato finora, posso dire che è stata lei a raccontare in prima persona quello che ha vissuto, il terrore di perdere la casa e le persone che ama, il dover crescere in fretta quando non c’e’ più neanche tempo per avere paura.

♥ Pochi giorni fa hai pubblicato il tuo secondo romanzo "Fino all'ultimo respiro".
Anche qui una storia di grande amicizia ed ancora un argomento importante come quello della malattia.
Come mai hai deciso di trattare proprio il tema della leucemia?

Non c’è un motivo per cui ho scelto la leucemia piuttosto che un altro tipo di cancro. Quella che volevo raccontare era una storia di vita e d’amicizia, ma di un’amicizia particolare, perché il romanzo e’ narrato in prima persona da Allyson, diciassettenne scozzese come tante, i cui problemi sono il prendere un bel voto al compito di matematica, la timidezza che la colpisce ogni volta in cui vede il ragazzo che le piace e cosa fare una volta finite le scuole superiori. 
L’amicizia con Coleen – improvvisa e inaspettata – la catapulta in un altro tipo di vita, perché Coleen è malata di leucemia da due anni e mezzo. 
L’idea per questo romanzo è nata in maniera del tutto inaspettata mentre ne stavo scrivendo un altro. Ho accantonato il romanzo su cui stavo lavorando e mi sono messa a fare delle ricerche per questo. Ammetto che, prima di cominciare a scriverlo, temevo che non lo avrei finito perché mi aspettavo di dover fare i conti con storie di morte, dolore e tristezza che hanno come protagonisti degli adolescenti invece, quando mi sono messa a leggere e ascoltare le storie degli adolescenti con il cancro, sono rimasta stupita dalla loro forza, dal loro coraggio, dal loro altruismo e dal loro amore per la vita! Quelle storie mi hanno spinta a cominciare a scrivere “Fino all’ultimo respiro” senza avere più un solo dubbio al riguardo. 
E’ vero, la malattia naturalmente e’ una parte fondamentale del romanzo:  non sono un medico ma prima di cominciare la stesura del romanzo ho svolto delle ricerche sulla leucemia, la chemioterapia, le radiazioni, il trapianto di midollo osseo e via dicendo e, anche se ho dovuto forzare alcuni passaggi ai fini della narrazione, ho cercato di scrivere un romanzo il più veritiero possibile. 
Non ho indorato la pillola: ho mostrato sia la forza di Coleen sia i suoi momenti “no”, sia il suo coraggio sia le sue insicurezze, i momenti belli della sua vita e quelli duri… la vediamo mentre vomita, mentre non riesce neanche a tenere gli occhi aperti a causa della stanchezza, la vediamo mentre cammina a testa alta senza sentirsi insicura perché ha perso i capelli. Vediamo i suoi genitori, distrutti dal dolore; vediamo i genitori di Allyson, che si ritrovano a pensare che la loro figlia avrebbe potuto ammalarsi di leucemia al posto di Coleen e a scavare dentro se stessi per unirsi di piu’ ai figli; vediamo il fratello di Allyson, amici e compagni di scuola delle due ragazze… perché oltre il cancro c’e’ sempre la vita, questo è il messaggio cruciale del mio romanzo. Il cancro costringe gli adolescenti a pigiare il tasto “pausa” nelle loro vite e Coleen desidera solo la normalità: non vuole essere ne’ compatita ne’ trattata con i guanti. Coleen sogna di tornare a scuola, di diventare insegnante di disegno, d’innamorarsi, di uscire con le amiche, di fare tutto ciò che fanno le ragazze della sua età.
Non posso dire altro sulla trama del libro senza rischiare di svelare troppo, ma voglio dire che “Fino all’ultimo respiro” è un romanzo dove si parla di morte, ovviamente, ma è un inno alla vita. Grazie alle testimonianze degli adolescenti che vivono con il cancro ho capito che è davvero possibile vivere fino all’ultimo respiro, come molti ragazzi e ragazze con il cancro terminale hanno dimostrato egregiamente. Purtroppo spesso le persone perdono di vista ciò che conta davvero nella vita; attraverso Coleen, voglio ricordare loro che cosa e’ davvero importante, che non dobbiamo dare per scontato l’essere qui adesso, in questo preciso momento, e che sta a noi scegliere che cosa fare delle nostre vite e come impiegare il tempo – breve o lungo che sia – che ci e’ concesso su questa Terra.
Il romanzo è leggibile gratuitamente e chiunque ne desidera una copia in PDF può scrivermi a rebeccaromanzo@yahoo.it
Ho scelto di renderlo gratuito per spronare i miei lettori a donare quello che possono (anche solo 1 Euro o 5 Euro) a Teenage Cancer Trust, l’ente benefico inglese che si occupa dal 1990 degli adolescenti che vivono con il cancro. Teenage Cancer Trust non si limita a curare i tumori nei 27 reparti che ha aperto e che mantiene (reparti a misura di adolescente, con personale specializzato, svaghi per giovani e collegamenti con le scuole di appartenenza), ma si occupa anche delle famiglie e degli amici, dell’aspetto morale e sociale e aiuta i ragazzi con il cancro a non sentire soli, a sentirsi ancora vivi.
Per saperne di più su Teenage Cancer Trust visita questa pagina del mio blog:
 Per fare direttamente una donazione in maniera veloce, semplice e sicura clicca il link qui sotto:

♥ Stai già lavorando ad un nuovo libro? Puoi dirci qualcosa sui tuoi progetti futuri?

No, al momento non sto lavorando a un nuovo romanzo perché sono impegnata con la promozione di “Fino all’ultimo respiro” e mi sto mobilitando anche per tradurlo in inglese, così da poter raggiungere più lettori e renderlo disponibile in altri Paesi, specialmente nel Regno Unito, dove le persone conoscono già il lavoro di Teenage Cancer Trust. 
Sicuramente continuerò a scrivere e non appena avrò del tempo libero ricomincerò a farlo: ammetto che non ho la minima idea di quale romanzo vorrò scrivere dopo, di che cosa tratterà, se sarà un contemporaneo come “Fino all’ultimo respiro” o un romanzo storico come “La mia amica ebrea”… al momento sono molto coinvolta da “Fino all’ultimo respiro” e dalle tematiche trattate nel romanzo, da cui sono rimasta toccata molto più di quanto non mi aspettassi prima di cominciare la stesura del libro, quindi penso che, anche se avessi davanti agli occhi una notizia capace di stimolarmi a tirarne fuori un romanzo, probabilmente neanche me ne accorgerei perché il mio cuore e la mia mente sono ancora con Coleen e con tutti i ragazzi che vivono quotidianamente con il cancro. Per lo stesso motivo penso che non darei la giusta attenzione a eventuali idee per libri futuri ma aspetto l’idea per il mio nuovo libro, quella con la I maiuscola: so che potrà arrivare in qualunque momento, ma per ora mi godo la promozione di “Fino all’ultimo respiro”.

♥ Ti ringrazio per la disponibilità e ti faccio un grande in bocca al lupo per la tua carriera!

Grazie mille a te per avermi ospitata e in bocca al lupo sia a te sia a Muriomu per il vostro bellissimo blog!

4 commenti:

  1. Rebecca! Leggerò il prima possibile qualcosa di suo!

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  2. Si vede che dietro c'è un lungo e appassionato lavoro :3 Avevo segnalato il libro tempo fa :D Ah...ho citato il tuo bel post sui giochi nei libri qui: http://neversaybook.blogspot.it/2014/06/post-ive-loved-leggere-e-giocare.html

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  3. interessante intervista!! come sai, la mia amica ebrea mi è piaciuto molto e ora sto leggendo quello di sofia
    presto però leggerò anche Fino all'ultimo respiro!!

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