lunedì 27 aprile 2015

Recensione: "Novecento. Un monologo" di Alessandro Baricco

Titolo: Novecento. Un monologo
Autore: Alessandro Baricco
Editore: Feltrinelli  (collana Universale Economica)
Data di pubblicazione: gennaio 2013
Pagine: 62
Prezzo: 5,00 €


Trama:
Il Virginian era un piroscafo. Negli anni tra le due guerre faceva la spola tra Europa e America, con il suo carico di miliardari, di emigranti e di gente qualsiasi. Dicono che sul Virginian si esibisse ogni sera un pianista straordinario, dalla tecnica strabiliante, capace di suonare una musica mai sentita prima, meravigliosa. Dicono che la sua storia fosse pazzesca, che fosse nato su quella nave e da lì non fosse mai sceso. Dicono che nessuno sapesse il perché...

Recensione:
Era da tanto tempo che desideravo leggere qualcosa di Baricco, e da altrettanto tempo rimandavo questo proposito, non sapendo a quale dei suoi romanzi dedicarmi inizialmente.
Non molti giorni fa mi sono imbattuta in questo libricino, Novecento, e mi è sembrata la scelta più giusta.
Poche pagine, ma abbastanza per intuire lo stile dell'autore e il suo modo di raccontare.
Abbastanza per decidere se la conoscenza con Baricco è una cosa che voglio approfondire oppure no.
Dopo aver fatto questa doverosa premessa, posso finalmente dire che questo racconto, pur essendo breve, una sessantina di pagine circa, mi ha conquistato poco a poco.
Abbiamo un uomo con una storia che, a suo dire, merita di essere narrata.
Seguendo quest'unica voce saliremo sul grande Virginian, la nave che per ben sette anni è stata la sua casa.
Salito a bordo come trombettista, l'uomo in questione troverà nel viaggio intrapreso più di quanto avesse immaginato.
Perché, come ben si sa, le cose più importanti arrivano sempre quando uno meno se le aspetta.
Così mentre cerca di sopportare un terribile mal di mare, il nostro narratore incontra Danny Boodman T.D. Lemon Novecento, l'uomo di cui tutti chiacchierano.
Il più abile e talentuoso pianista mai conosciuto, il bambino nato anni or sono su quella stessa nave, ma soprattutto l'unica persona a non aver mai messo piede sulla terraferma.
Sembra incredibile eppure Novecento non sa cosa significhi camminare se non ondeggiando sull'oceano, non conosce finestre se non gli oblò, non sa cosa sia la vita vera, al di là di quella che percepisce negli altri.
Tutto quello che può fare è ascoltare, le storie dei passeggeri, i posti che visitano, le persone che incontrano, i colori, i suoni, i profumi che lui può solo immaginare.
Novecento li respira, li fa suoi e li traduce in musica.
Divora emozioni e desideri e li libera con note musicali.

Potevi pensare che era matto. Ma non era così semplice. Quando uno ti racconta con assoluta esattezza che odore c'è in Bertham Street, d'estate, quando ha appena smesso di piovere, non puoi pensare che è matto per la sola stupida ragione che in Bertham Street, lui, non c'è mai stato. Negli occhi di qualcuno, nelle parole di qualcuno, lui, quell'aria, l'aveva respirata davvero. A modo suo: ma davvero. Il mondo, magari, non l'aveva visto mai. Ma erano ventisette anni che il mondo passava su quella nave: ed erano ventisette anni che lui, su quella nave, lo spiava. E gli rubava l'anima. 
In questo era un genio, niente da dire. Sapeva ascoltare. E sapeva leggere. Non i libri, quelli son buoni tutti, sapeva leggere la gente. I segni che la gente si porta addosso: posti, rumori, odori, la loro terra, la loro storia... Tutta scritta, addosso. Lui leggeva, e con cura infinita, catalogava, sistemava, ordinava... Ogni giorno aggiungeva un piccolo pezzo a quella immensa mappa che stava disegnandosi nella testa, immensa, la mappa del mondo, del mondo intero, da un capo all'altro, città enormi e angoli di bar, lunghi fiumi, pozzanghere, aerei, leoni, una mappa meravigliosa. Ci viaggiava sopra da dio, poi, mentre le dita gli scivolavano sui tasti, accarezzando le curve di un ragtime.

Novecento è senza dubbio una persona singolare.
Non conosce il mondo e soprattutto non conosce la natura umana fino in fondo.
Non sa cos'è l'invidia o la cattiveria. Non compete con il prossimo ma cerca di aiutarlo.
Vede il meglio nelle persone perché solo il meglio gli è stato mostrato. Le feste, i canti, le serate di jazz: questa è la sua vita, ed il rilassato parterre in vacanza è il suo pubblico.
Pur essendo a tutti gli effetti un adulto mostra l'ingenuità e la spontaneità di un bambino. È puro come solo chi non è stato contaminato dal denaro e dalle ambizioni può essere. Come solo chi vive su una nave da sempre.
È diverso da tutti gli altri ed è proprio la sua diversità a conquistare. Il suo essere naïf lo rende uno di quei personaggi che ti entrano nel cuore (un po' come il Gatsby di Fitzgerald), a cui ripensi con nostalgia.
Per quanto il libro sia sicuramente ben scritto, il punto di forza del romanzo sta proprio nella storia e nel suo protagonista. E nelle emozioni che riesce a trasmettere.
Il bello sta proprio in questo, nel saper raccontare qualcosa in modo così incisivo ed intenso da non aver bisogno di centinaia di pagine o di tanti giri di parole.
Il bello sta nell'avere un messaggio da consegnare, nel saper come arrivare al cuore delle persone. Nel lasciare il segno.

Considerazioni:
Come dicevo prima questo breve romanzo è stato proprio una bella sorpresa.
Inizialmente ero un po' perplessa, dopo aver appreso (dalla prefazione) che il libro non era altro che la pubblicazione di una sceneggiatura teatrale. Mi è già capitato in passato di avere a che fare con altre stesure di questo genere e devo ammettere che non mi hanno mai convinta del tutto. L'idea di leggere ancora di entrate in scena, cambio di luci, primi piani e scenografie non mi attirava più di tanto.
Per fortuna in questo caso gli interventi fuori campo sono molto limitati e non pesano sulla lettura che non risulta interrotta in alcun modo.
Altra cosa che ho apprezzato è la scelta di introdurre la storia tramite un narratore esterno (che rimane anonimo), come accadeva in passato con i cantastorie.
In questo modo la vicenda riesce a conservare quell'alone di mistero e leggenda che solo le vecchie storie hanno.
Per quanto riguarda invece lo stile posso dire che, pur non utilizzando Baricco un vocabolario particolarmente forbito, riesce d'altronde ad impreziosire la narrazione con metafore, riferimenti a suoni e profumi, vere e proprie rievocazioni di atmosfere.
Da questo punto di vista Novecento potrebbe anche sembrare un percorso per immagini: un insieme di visioni che lo scrittore regala al lettore.
Per quanto tutto questo sia già sufficiente per rendere Novecento un buon libro, un'unica cosa lo rende addirittura speciale: il protagonista.
Novecento è enigmatico e misterioso, quel genere di personaggio che, per quanto ti sforzi, non riesci mai a capire fino in fondo.

Cosa aveva visto, da quel maledetto terzo gradino, non me lo volle dire. Quel giorno e poi per i due viaggi che facemmo dopo, Novecento rimase un po' strano, parlava meno del solito, e sembrava molto occupato in qualche sua faccenda personale. Noi non facevamo domande. Lui faceva finta di niente. Si vedeva che non era proprio tutto normale, ma comunque non ci andava di chiedergli qualcosa. Andò così per qualche mese. Poi un giorno Novecento entrò nella mia cabina e lentamente ma tutto di fila, senza fermarsi, mi disse: "Grazie per il cappotto, mi andava da dio, è stato un peccato, avrei fatto un figurone, ma adesso va tutto molto meglio, è passata, non devi pensare che io sia infelice: non lo sarò mai più". 
Per me, non ero nemmeno sicuro che lo fosse mai stato, infelice. Non era una di quelle persone di cui ti chiedi chissà se è felice quello. Lui era Novecento, e basta. Non ti veniva da pensare che c'entrasse qualcosa con la felicità, o col dolore. Sembrava al di là di tutto, sembrava intoccabile. Lui e la sua musica: il resto, non contava. 
"Non devi pensare che io sia infelice: non lo sarò mai più." Mi lasciò secco, quella frase. Aveva la faccia di uno che non scherzava, quando la disse. Uno che sapeva benissimo dove stava andando. E che ci sarebbe arrivato. Era come quando si sedeva al pianoforte e attaccava a suonare, non c'erano dubbi nelle sue mani, e i tasti sembravano aspettare quelle note da sempre, sembravano finiti lì per loro, e solo per loro. Sembrava che inventasse lì per lì: ma da qualche parte, nella sua testa, quelle note erano scritte da sempre. 
Adesso so che quel giorno Novecento aveva deciso di sedersi davanti ai tasti bianchi e neri della sua vita e di iniziare a suonare una musica assurda e geniale, complicata ma bella, la più grande di tutte. E che su quella musica avrebbe ballato quel che rimaneva dei suoi anni. E che mai più sarebbe stato infelice.

Seguendo i suoi ragionamenti, per quanto sembrino assurdi, non si può non rimanere affascinati: la scelta di non competere con il musicista rivale Jelly Roll, il modo in cui sogna di allontanarsi dalla vita di tutti i giorni solo per poterla riabbracciare con maggiore entusiasmo un giorno, la paura dell'ignoto, il terrore delle infinite possibilità che lo aspettano.
Novecento pensa come un bambino ma con la profondità di un vecchio saggio.
In questo mi ha ricordato tanto il piccolo principe di Antoine de Saint-Exupéry. 
Entrambi animati solo da sentimenti sinceri, entrambi liberi dai doveri e dalle convenzioni. Entrambi pronti a rinunciare alla vita sulla terra pur di ritornare (Il piccolo principe) o rimanere (Novecento) nell'unico mondo che sembra appartenergli. A rinunciare a tutto pur di essere di nuovo a casa.


il mio voto per questo libro

giovedì 23 aprile 2015

Presentazione: "Sono io Taylor Jordan!" di Tania Paxia

Salve avventori!
Oggi vi presentiamo il nuovo libro di Tania Paxia, autrice emergente e anche nostra collega blogger.
Sto parlando di "Sono io Taylor Jordan", in uscita il prossimo 5 maggio, una commedia romantica ambientata nel cuore di Manhattan.

Titolo: Sono io Taylor Jordan!
Autore: Tania Paxia
Data di pubblicazione: 5 maggio 2015
Pagine: 275
Prezzo: 0,99 € (ebook)

Trama:

C'era una volta... Una ragazza piena di paure, che viveva a New York. Tranquilli, non è un libro fantasy! Questa è la mia storia: mi chiamo Meggie Clarke e sono una cover designer con la passione per la scrittura. Vivo in un appartamento condiviso, insieme a due coinquilini, la Bestia e la Bella. 
Ray Parker, invece, è il mio Capo, o il Principe, come lo chiamiamo in ufficio. E poi c'è...Taylor Jordan. 
Ma chi è Taylor Jordan? 
1° indizio: Barnes&Noble, Unione Square. Sezione fantasy. 
2° indizio: Taylor potrebbe essere una ragazza! 
Per gli altri indizi, dovrete aspettare di leggere il libro! 
 Perché, magari, sono io Taylor Jordan...oppure no.

giovedì 16 aprile 2015

Recensione: "La donna perfetta" di Ira Levin

Titolo: La donna perfetta o La fabbrica delle mogli
Titolo originale: The Stepford wives
Autore: Ira Levin
Editore: Beat
Data di pubblicazione: 2012
Pagine: 208
Prezzo: 12,90 €

Trama:
Per sfuggire allo stress della vita di città, Walter e Joanna Eberhart, con i loro bambini, decidono di trasferirsi a Stepford, una tranquilla cittadina del Connecticut, dove il tasso di criminalità è pari a zero, le strade sono linde, i giardini curati e la gente sempre cordiale. 
Dopo le impressioni positive dei primi giorni, Joanna, giovane donna appassionata di fotografia e animata da idee progressiste, comincia a notare situazioni che le destano non poche perplessità. 
Mentre il marito viene accolto come nuovo membro dell'Associazione Maschile, lei si accorge, ogni giorno di più, che le donne sembrano tutte incarnare alla perfezione un modello di felicità ed efficienza domestica da carosello pubblicitario: belle, curate, seno prosperoso, modi caramellosi, il cui unico scopo nella vita pare essere quello di accudire mariti e figli e tenere pulite e splendenti le loro dimore. 
Lavare, pulire, stirare, lucidare. 
Le donne di Stepford non sembrano avere altra ambizione.
Eppure, da un vecchio articolo di giornale, Joanna scopre che in città non sempre le cose sono andate così...

Recensione:
Questo lavoro di Ira Levin può essere definito un thriller satirico con elementi fantascientifici e un inaspettato risvolto horror.
C'è un po' di tutto quindi, e quello che sicuramente non manca è la capacità di lasciare un messaggio e far riflettere il lettore. 
Il libro è scritto nel 1972, e questi sono gli anni caratterizzati dal forte diffondersi del femminismo radicale.
L'autore si ispira proprio a questa tematica per l'ambientazione di questo suo lavoro, in cui la protagonista è Joanna Eberhart, una femminista convinta.
Joanna con la sua famiglia, i due figli e il marito Walter, abbandona il caos della vita della metropoli, per trasferirsi nella piccola e adorabile Stepford.
La cittadina, ad una prima occhiata, pare il posto perfetto dove vivere e crescere i propri figli, la tipica città da cartolina, con i suoi giardinetti e le sue staccionate bianche.
Tutto sembra gradevole, invitante e accogliente, tutto tranne le vicine, sempre troppo impegnate nelle pulizie di casa, da non concedere alla nuova venuta nemmeno il tempo di una chiacchierata vicino ad una tazza di tè.
Se da principio la cosa sembra, alla protagonista, solo una buffa stranezza, col tempo iniziano a maturare in lei pensieri e domande più complesse.
Com'è possibile che tutte le donne di Stepford siano così simili fra loro?
Sempre curate, perfette, ben vestite, seni floridi, vitini da vespa, tutte sorrisi e moine.
Sempre docili e concilianti, accomunate dal desiderio di servire e riverire i loro maritini e di tenere la casa in meticoloso ordine, come se non avessero altra ambizione all'infuori di questa.
E difatti non ne hanno. 
Mentre i loro mariti si riuniscono ogni sera all'associazione maschile, loro restano a casa, a lavare, pulire, stirare, rammendare.
Nessun hobby, nessuna opinione, nessun pensiero, nessuna passione.
Delle perfette Barbie senza cervello. Il sogno di ogni omuncolo.
Da essere pensante Joanna si pone delle domande, e da donna, con tutte le forze e le debolezze che la rendono tale, non può fare a meno di mettersi a confronto.
"Cosa c'è di sbagliato in loro? O cosa c'è di sbagliato in me?"
Walter, suo marito, la vorrebbe diversa? La vorrebbe più simile alle sue vicine?
Ma Joanna non si fa prendere troppo dal complesso di inferiorità nei loro confronti, anzi, nasce presto in lei la convinzione che tanta "perfezione" non può essere reale, e sicuramente quelle bambole vuote sono tutto, tranne che delle donne in carne ed ossa.
Il sospetto, la paura di essere rimpiazzata con un robot, si faranno strada in lei, portandola a diffidare di tutto e di tutti.
Ira Levin racconta questa storia come se ci stesse descrivendo delle scene di un film, senza indagare troppo nelle paure e nei sentimenti dei personaggi, lasciando quindi piena libertà al lettore di farsi delle idee proprie e di provare i sentimenti che più la lettura gli ispira.
Questa scelta è portata avanti fino alla fine, difatti lo scrittore non ci spiega cosa ha portato i mariti di Stepford a fare quello che hanno fatto, né il perché delle loro azioni.
Ci lascia liberi di trarre le nostre conclusioni e i nostri giudizi.
Il mio, per quanto mi riguarda, non può essere diverso da questo: per quanto geniali fossero le menti dei mariti di Stepford e, per quanto acute e ardite fossero le loro conoscenze nei più vasti campi dell'ingegneria e della scienza, non hanno mai avuto il coraggio di mettersi a confronto con le loro mogli e trattarle come loro pari. Semplicemente dei codardi.

Considerazioni:
Volevo leggere questo libro da tempo, precisamente da quando ho visto, anni fa, il film "The Stepford Wives" con protagonista Nicole Kidman.
Ho letto poi, mesi fa, il racconto breve "La donna perfetta" di Robert Sheckley, che è per certi versi molto simile a questo, anche se in quello faceva da padrone soprattutto l'aspetto sentimentale della vicenda.
Il mese scorso, invece, ho letto "L'amore bugiardo" di Gillian Flynn, e voi direte "cosa c'entra?" forse niente, ma a me è venuto spontaneo, mentre lo leggevo, paragonare le due storie.
Da qui la necessità di leggere finalmente questo libro.
Sorvolando, ora, sull'excursus che mi ha portato a leggerlo, questo libro mi ha fatto provare diversi stati d'animo, primo fra tutti la rabbia!
Mi ha fatto davvero infuriare leggere di questi mariti, talmente presi da se stessi, da non essere disposti a sacrificare nulla che possa ledere la loro immagine di vita perfetta.
Non ci è dato sapere come fossero le altre donne di Stepford prima della loro "trasformazione", ma durante la lettura abbiamo modo di conoscere due amiche di Joanna, 
Charmaine e Bobbie.
Pare davvero assurdo che i loro mariti preferiscano a loro, due donne spiritose, divertenti e indipendenti, degli automi senza personalità. 
Charmaine è un po' viziata e impertinente, ma sicuramente più briosa e vitale di uno stupido manichino.
Ha una passione, il tennis a cui dedica il tempo libero, e la cosa che forse mi ha sconvolto di più in tutta la lettura, è che suo marito non fosse disposto a concederle nemmeno questo. Nemmeno il lusso di uno sport.
Dopo averla sostituita, fa smantellare il loro campo da tennis privato, per rimpiazzarlo con un campo da golf, la sua passione.
A riprova di quanto questi uomini si sentano superiori, tanto da non essere disposti a rinunciare a nulla in favore dei desideri delle loro compagne.
Vogliono tutto, e non importa se devono prenderselo con la forza.
Preferiscono un rapporto perfetto e di plastica ad un rapporto imperfetto e sincero.
Persino Walter, che non sembra avere apparentemente nessun problema con Joanna, alla fine cede al desiderio di possedere, anche lui, una moglie perfetta.
Ma la perfezione non sta sulla terra. 
Non appartiene alle donne tanto meno agli uomini, che prima di pretenderla dalle loro compagne avrebbero dovuto ricercarla in se stessi.
Altro aspetto grottesco sta anche nel pensare che delle menti geniali, come quelle dei mariti di Stepford, si siamo riunite dando vita a qualcosa di così eccezionale a livello scientifico quanto inutile per il progresso della società, se non utile al processo inverso.
Dei geni di questo livello, in grado di costruire dei robot che sembrano in tutto e per tutto umani, quali grandi meraviglie avrebbero potuto ideare per il nostro pianeta?
Invece hanno preferito focalizzare le loro energie per mettersi al sicuro dalle loro paure.
Sottomettere la donna, ed evitare un confronto che probabilmente non avrebbero saputo gestire.

Confronto con il film:
Da questo romanzo sono stati tratti due film, uno girato nel 1975, e l'altro più recente girato nel 2004.
Come dicevo prima, ho visto diversi anni fa il film del 2004 con protagonista Nicole Kidman.
La storia è molto simile ma, allo stesso tempo, estremamente diversa. 
Pur avendo apprezzato entrambe le versioni, posso dire di aver preferito senza dubbio quella cinematografica.
Più originale, più approfondita e con un epilogo differente, che ho apprezzato.
Qui è di una donna l'idea di rendere Stepford una città diversa, migliore a sua detta.
Sottrarla al tempo e chiuderla in una campana di vetro, rendendo al contempo le sue donne più graziose, servizievoli e femminili.
Claire, neurologo noto in tutto il mondo, dopo aver sorpreso suo marito a letto con un'altra e aver compiuto lo sconsiderato atto di ucciderlo, decide che le cose devono cambiare.
Aver messo il lavoro al primo posto l'ha portata ad essere rimpiazzata nella vita privata.
Ed è qui che nasce la sua idea.
Sceglie la città adatta, e decide di trasformarla nella città ideale.
Ammette a Stepford delle famiglie prescelte, tutte donne impegnate e di successo e le trasforma in mogli e casalinghe perfette.
Ciò che resta invariato, anche nella versione in pellicola, è la codardia degli uomini, il loro timore di essere messi a confronto con le loro mogli e la paura di perdere quel paragone miseramente.
Ciò che non mi sono mai spiegata di questa versione è perché Claire, donna tradita e delusa dal suo compagno, non abbia scelto, anziché intervenire sulle donne, di rendere gli uomini dei mariti perfetti e senza macchia.
Di regalare alle mogli di Stepford dei perfetti, attraenti, romantici e fedeli mariti di Stepford.
In questo modo le cose sarebbero state eque, le parti entrambe soddisfatte e non credo che nessuno si sarebbe lamentato.

il mio voto per questo libro

lunedì 13 aprile 2015

Estratto: "Novecento. Un monologo" di Alessandro Baricco

Salve avventori!
Il passo che vi propongo oggi è tratto da un libro piccino piccino ma molto profondo. Mi riferisco a "Novecento. Un monologo" di Alessandro Baricco.
Nelle poche righe qui riportate il pianista Novecento giustifica il suo rifiuto a scendere dalla grande nave che è stata la sua casa, ma soprattutto spiega la sua difficoltà a vivere nel mondo esterno.
Se non l'avete ancora fatto vi invito a leggere questo breve romanzo (di cui vi parlerò prossimamente) o perlomeno a leggere il passo qui sotto XD

Tutta quella città... non se ne vedeva la fine... 
La fine, per cortesia, si potrebbe vedere la fine? 
E il rumore 
Su quella maledettissima scaletta... era molto bello, tutto... e io ero grande con quel cappotto, facevo il mio figurone, e non avevo dubbi, era garantito che sarei sceso, non c'era problema 
Col mio cappello blu 
Primo gradino, secondo gradino, terzo gradino 
Primo gradino, secondo gradino, terzo gradino 
Primo gradino, secondo 
Non è quel che vidi che mi fermò 
È quel che non vidi 
Puoi capirlo, fratello?, è quel che non vidi... lo cercai ma non c'era, in tutta quella sterminata città c'era tutto tranne 
C'era tutto 
Ma non c'era una fine. Quel che non vidi è dove finiva tutto quello. La fine del mondo 
Ora tu pensa: un pianoforte. I tasti iniziano. I tasti finiscono. Tu sai che sono 88, su questo nessuno può fregarti. Non sono infiniti, loro. Tu, sei infinito, e dentro quei tasti, infinita è la musica che puoi fare. Loro sono 88. Tu sei infinito. Questo a me piace. Questo lo si può vivere. 
Ma se tu... 
Ma se io salgo su quella scaletta, e davanti a me... 
Ma se io salgo su quella scaletta e davanti a me si srotola una tastiera di milioni di tasti, milioni e miliardi Milioni e miliardi di tasti, che non finiscono mai e questa è la vera verità, che non finiscono mai e quella tastiera è infinita 
Se quella tastiera è infinita, allora 
Su quella tastiera non c'è musica che puoi suonare. Ti sei seduto su un seggiolino sbagliato: quello è il pianoforte su cui suona Dio Cristo, ma le vedevi le strade? 
Anche solo le strade, ce n'era a migliaia, come fate voi laggiù a sceglierne una 
A scegliere una donna 
Una casa, una terra che sia la vostra, un paesaggio da guardare, un modo di morire 
Tutto quel mondo 
Quel mondo addosso che nemmeno sai dove finisce 
E quanto ce n'è 
Non avete mai paura, voi, di finire in mille pezzi solo a pensarla, quell'enormità, solo a pensarla? 
A viverla... 
Io sono nato su questa nave. E qui il mondo passava, ma a duemila persone per volta. E di desideri ce n'erano anche qui, ma non più di quelli che ci potevano stare tra una prua e una poppa. Suonavi la tua felicità, su una tastiera che non era infinita. 
Io ho imparato così. La terra, quella è una nave troppo grande per me. È un viaggio troppo lungo. È una donna troppo bella. È un profumo troppo forte. È una musica che non so suonare. Perdonatemi. Ma io non scenderò. Lasciatemi tornare indietro.



mercoledì 1 aprile 2015

Recensione: "Noi" di David Nicholson

Titolo: Noi
Titolo originale: Us
Autore:  David Nicholson
Editore: Neri Pozza
Data di pubblicazione: 2014
Pagine: 431
Prezzo: 18,00 €

Trama: 
Douglas e Connie sono sposati da decenni e hanno un figlio, Albie. 
Douglas è ancora follemente innamorato di sua moglie e dà per scontato che concluderanno le loro vite insieme. 
Una sera, però, a letto, Connie proferisce le parole che lui non avrebbe mai voluto sentire: «Il nostro matrimonio è arrivato al capolinea, Douglas. Penso che ti lascerò». 
Nonostante la decisione presa, Connie propone un ultimo viaggio da fare insieme: il Grand Tour nelle maggiori città d’arte europee per preparare Albie a entrare nel mondo degli adulti, come facevano nel Settecento. 
Douglas, la cui vita sembra letteralmente inconcepibile senza Connie, decide che non può terminare tutto così. Accetta perciò di partire per quell’ultima vacanza insieme.
Il Grand Tour sarà per lui l'ultima occasione per salvare il suo matrimonio, riconquistare sua moglie, e quel figlio che sembra scontento dell’uomo che sua madre ha scelto per metterlo al mondo.

Recensione:
David Nicholson in queste pagine ci racconta di un matrimonio andato alla deriva, e lo fa attraverso la voce, i pensieri e i ricordi di Douglas, un uomo la cui vita viene stravolta nel bel mezzo di una notte come tante.
Possono delle semplici parole dette sottovoce fare così male?
Si possono, e lo fanno proprio perché inaspettate.
Douglas vive con sua moglie Connie un matrimonio che, nonostante le apparenze, nonostante le premesse assurde sotto le quali è nato e nonostante le numerose difficoltà superate, pare resistere solido allo scorrere del tempo.
Lui la ama e sogna di invecchiare e finire i suoi giorni accanto a lei, ma quello che non sa è che sua moglie cova nel cuore, già da un po' di tempo, desideri ben diversi.
È così che inizia la battaglia di Douglas per tenere stretto a sé ciò che gli appartiene, ciò che ritiene indispensabile, sua moglie, la sua famiglia.
Ed è così che inizia un viaggio tra le capitali europee e tra i ricordi, le paure e le speranze del protagonista.
Così Nicholson ci racconta, la nascita di un improbabile amore tra due persone agli antipodi, lei un eccentrica aspirante artista, lui un metodico uomo di scienza.
Ci rende parte delle gioie e dei dolori di un matrimonio e di un rapporto, decisamente problematico, con un figlio decisamente viziato.
Ma "Noi" non è solo questo.
Ciò che lo rende originale, e ciò che me lo ha fatto piacere, è l'ironia e il sarcasmo con cui il protagonista ci parla di se stesso, l'estrema verità dei sentimenti raccontati e le numerose nozioni scientifiche ed artistiche che vengono elargite tra un ricordo e l'altro.
E da amante di entrambe le discipline, non posso che considerarlo come un valore aggiunto. 
Sicuramente "Noi" non è uno di quei libri che a finiti non lasciano nulla, almeno a me ha trasmesso tanto durante la lettura e ha lasciato tanto dopo.
Leggendolo non ho smesso un attimo di riflettere sui comportamenti dei personaggi, comprenderne alcuni e criticare aspramente altri.

Considerazioni:
La lettura di questo libro mi è stata proposta da Dany di "Un libro per amico" che mi ha chiesto di partecipare al suo gruppo di lettura.
Ho accettato volentieri, perché occasioni del genere offrono davvero l'opportunità di confrontarsi su ciò che si legge.
Esprimere opinioni sulle situazioni e sui personaggi che leggiamo dando non solo il nostro parere, ma cercando anche di prevederne mosse e risvolti futuri.
Ho quindi letto questo libro nelle quattro settimane previste dal GDL e commentato, nelle varie tappe, tutte le mie impressioni a riguardo.
Qui ovviamente farò solo un piccolo riassunto.
Inizio col dire che questo non è, almeno per quanto mi riguarda, un libro che tiene incollato alle sue pagine, ovvero, quando lo lasciavo dandogli appuntamento alla settimana successiva, la cosa non mi ha mai pesato più di tanto.
Questo però non vuol dire che non l'abbia apprezzato, anzi.
È un libro che fa riflettere e che forse ha anche bisogno di tempo per rifletterci su.
Quando l'ho iniziato non sapevo davvero a cosa andassi incontro, e devo dire che mi ha stupita positivamente, non mi aspettavo di trovarmi a leggere una lettura così divertente.
Successivamente la storia è entrata nel vivo e ha perso quel brio e quell'ironia che la caratterizzava nei capitoli iniziali e che ho ritrovato, poi, solo in quelli finali.
Parlando di ironia e simpatia, devo anche ammettere che queste sono caratteristiche presenti in un unico personaggio, il capofamiglia.
Per il resto, bisogna dirlo, David Nicholson qui ha dato vita a personaggi estremamente antipatici ed egoisti.

Douglas è l'unico dei tre protagonisti che non butto giù dalla torre.
Mi ha fatto tanta tenerezza e simpatia. 
Mi è piaciuto il modo in cui si racconta al lettore, l'ho trovato sarcastico ed ironico, il tipo che, pur essendo una spanna sopra gli altri, non si prende mai troppo sul serio.
Ho letto in lui tanta dolcezza, e amore. 
Tenerissima è stata la parte in cui racconta la convivenza con Connie, le piccole azioni di ogni giorno che, col tempo, sono diventate abitudini logore e amate. 
Si percepisce, sentendolo parlare, che ama profondamente la sua famiglia, che farebbe di tutto per loro. 
Probabilmente l'amore che prova è anche il suo freno.
Teme costantemente di deluderli, di non essere adeguato e all'altezza.
Pare costantemente essere messo alla prova, ed effettivamente lo è, perché la sua famiglia è sempre pronta a coglierlo in fallo, deriderlo e a rinfacciargli ogni svista o errore.
Connie e Albert, più che una moglie e un figlio paiono due nemici, alleati contro di lui.

Se al principio il personaggio di Connie mi creava emozioni contrastanti (mi era simpatica in alcuni (rari) momenti, ma non sopportavo alcuni (troppi) suoi atteggiamenti), da un certo punto in poi ho finito con il detestarla.
Lei non fa nessuno sforzo per comprendere i bisogni e le insicurezze del marito, non si schiera mai dalla sua parte. 
Non fa nulla per salvare il suo matrimonio, vuole solo essere felice e chi se ne frega di tutti gli altri.
Anche quando Douglas le dice che andrà a Venezia a cercare loro figlio, lei da perfetta menefreghista, lo congeda con un "sta attento", non le passa nemmeno per la testa l'idea di accompagnarlo.
Dice di amarlo, ma a queste parole non segue nessun fatto che lo dimostri.
Se ami una persona non l'abbandoni, ma (come dice Douglas) la tieni legata a te con doppio filo di ferro (finché ne vale la pena, ovviamente).
È egoista, e molto spesso mi è parsa lusingata nella sua condizione di genitore prediletto.
È troppo facile, però, essere amati quando si interpreta la parte del genitore compagnone che incita al sesso, droga, e rock and roll.
Difficile è, invece, educare ed insegnare ai figli ad essere delle persone perbene e mature. Questo è volere il bene di un figlio! 
Connie non mi è mai sembrata una donna matura, una moglie e una madre. 
Il suo unico desiderio è quello di continuare a comportarsi da ragazzina libera e squilibrata.
Non accetta il fatto di essere diventata un'adulta con degli obblighi e delle responsabilità.
Forse nessuno aveva informato la signorina che la crescita implica, non solo un aumento progressivo dell'età sulla carta d'identità, ma anche una rispettiva maturità mentale e maggiori responsabilità.
Una donna e una madre di famiglia non può pretendere di comportarsi da ragazzina per sempre.
Ed è inutile che rinfacci il suo essere infelice al marito. Il suo essere infelice dipende solamente da se stessa.

Albert, il figlio, è insopportabile, ho detestato il suo comportamento e il modo sprezzate con cui ignora e denigra suo padre, che non ha fatto nulla per meritare un trattamento simile.
È il tipico esempio di ragazzo viziato che ha tutto: possibilità di fare ciò che vuole, genitori che lo amano, libertà e opportunità e, dato che non ha problemi con cui impietosire gli altri, se li inventa.
Però capisco che da una madre che lo ha sempre trattato più come un compagno di bravate, che come un figlio, non si poteva certo aspettare molto di più.
Un frutto che, purtroppo per lui, non è caduto troppo lontano dal suo albero.

Oltre a Douglas, un personaggio positivo l'ho trovato nella figura della dentista Freja Kristensen.
Una donna simpatica e alla mano che, al contrario di Connie, non si erge su un piedistallo guardando tutti dall'alto in basso, giudicandoli.
Ho trovato lei e Douglas deliziosi insieme e non nego di aver sperato, per tutta la durata della lettura, che Douglas mandasse la moglie a quel paesino bello e si dichiarasse a lei! XD

Una lettura, questa, che mi ha lasciato tanto, tanti pensieri, tante riflessioni, qualche nozione artistica e scientifica in più e tanto affetto per il suo protagonista.
Nicholson ci ha descritto così bene la sua vita, la sua personalità e i suoi pensieri, che mi è parso quasi di conoscerlo davvero.
E quando un libro ha il potere di far affezionare così tanto ad un suo personaggio è sicuramente un libro che vale la pena leggere.

il mio voto per questo libro