domenica 27 gennaio 2019

Recensione: "Il bambino con il pigiama a righe" di John Boyne e Oliver Jeffers

Titolo: Il bambino con il pigiama a righe
Autore: John Boyne
Illustrazioni: Oliver Jeffers
Editore: Rizzoli
Data di pubblicazione: 30 novembre 2017
Pagine: 338
Prezzo: 22,00 €

Trama:
Berlino, 1942. Il piccolo Bruno, di ritorno da scuola, trova un giorno ad accoglierlo un'inaspettata notizia: il papà ha ricevuto una promozione, e presto lui e il resto della famiglia dovranno trasferirsi molto, molto lontano.
La nuova casa si rivela un luogo desolato, dove non c'è niente da fare, e nessuno con cui giocare. Solo un'alta recinzione, lunga fin dove lo sguardo si spinge, a separare Bruno dalle strane persone che lui intravede in lontananza. Ma è proprio esplorando questo confine che Bruno incontra Shmuel, un ragazzino più o meno della sua età, la cui vita è però molto diversa dalla sua...
Il romanzo di John Boyne torna in una nuova, struggente edizione, grazie alle illustrazioni di Oliver Jeffers.

Recensione:
Molti sono i libri sulla Shoah che, giustamente, hanno il compito di ricordare l'orrore perpetrato ai danni degli ebrei, nel corso della Seconda Guerra Mondiale.
Pochi però, a mio avviso, riescono a dipingere l'assurdità delle teorie e, soprattutto delle pratiche, naziste, come "Il bambino con il pigiama a righe".
Il libro di Boyne, infatti, ha tra i suoi maggiori pregi quello di descrivere, attraverso gli occhi dei bambini, l'orrore dei campi di sterminio.
Da una parte abbiamo Bruno, il figlio del Comandante dell'esercito tedesco, dall'altra Shmuel, uno dei tanti piccoli innocenti privati della loro libertà e dignità.
In mezzo a loro una rete, a dividere due mondi diversi, due vite opposte. Quella fatta di privazioni, punizioni e duro lavoro dell'ebreo, e quella più spensierata e sprovveduta dell'altro.
I loro percorsi, così dissimili, finiscono per incontrarsi un giorno qualunque, mettendo così in luce, non solo le inevitabili differenze, ma anche le inequivocabili somiglianze.
Bruno, costretto a stravolgere la sua vita di punto in bianco, a lasciare Berlino, la sua quotidianità, e gli amici di sempre, troverà in Shmuel un compagno di sventure, qualcuno con cui condividere il tempo, la solitudine, i ricordi. Mentre quest'ultimo che ha conosciuto così presto la malvagità degli uomini, rivede nel compagno la gentilezza e l'ingenuità dei puri di cuore.
Entrambi si fanno forza, giorno dopo giorno, sperando che un giorno la divisione tra i loro mondi scompaia, che si possa giocare tutti insieme, come un unico popolo, come esseri umani.

Non erano abituati a stare dalla stessa parte della rete. 
Bruno sentì l'impulso di abbracciare Shmuel, così, per fargli sapere quanto gli voleva bene e come gli era piaciuto parlare con lui per tutti quei mesi. 
Anche Shmuel sentì l'impulso di abbracciare Bruno, così, per ringraziarlo della gentilezza, del cibo che gli aveva portato e perché lo avrebbe aiutato a ritrovare il suo papà. 
Nessuno dei due però abbracciò l'altro, cominciarono invece ad allontanarsi dalla rete camminando verso il campo, un tragitto che Shmuel aveva percorso quasi ogni giorno, nell'ultimo anno. Dal giorno in cui era riuscito a sfuggire alla sorveglianza dei soldati e a raggiungere quell'angolo di Auscit che nessuno sembrava controllare. 
Un angolo in cui era stato tanto fortunato da incontrare un amico come Bruno.

Il libro, come immaginerete, riporta degli scenari strazianti, descritti però in modo non troppo cruento, proprio in rispetto del punto di vista prescelto, ovvero quello del piccolo tedesco. Il protagonista infatti, pur imbattendosi in molte cose inspiegabili e assistendo talvolta ad episodi crudeli, rimane sostanzialmente all'oscuro della realtà dei fatti. La sua ingenuità lo porta a non accettare, non sappiamo se coscientemente o meno, che il padre possa essere responsabile di tanta ingiustizia, e a credere che la vita al di là del reticolato non sia poi così male come racconta Shmuel.
Il lettore però, sapendo cosa sta accadendo davvero nel campo, riesce a leggere nelle parole, nei silenzi, nei pensieri e nelle immagini formulate da Bruno, tutta la tragedia che si cela nel non detto.
Vediamo ad esempio nel corpicino martoriato e denutrito del ragazzino ebreo le torture dei nazisti e non la stanchezza per i troppi giochi, nelle sue lacrime il dolore per ciò che ha perso, nei lividi non le cadute in bicicletta ma i calci dei soldati.
Shmuel, pur apparendo in scena solo nella seconda parte del romanzo, riesce a catalizzare su di sé tutta l'attenzione e le premure di chi legge. Non si può che tenere a lui, e sperare in una sua salvezza, per quanto improbabile.

«E ieri mi ha detto che suo nonno non si vede da giorni e nessuno sa dove sia. E ogni volta che chiede a suo padre e a sua madre, loro cominciano a piangere e lo abbracciano così stretto che ha paura di venire stritolato.» 
Bruno si rese conto di aver abbassato il tono di voce. 
Queste erano cose che gli aveva detto Shmuel, ma per qualche ragione allora non aveva compreso fino in fondo la tristezza dell'amico. Se ne accorgeva solo adesso, udendolo con la propria voce, e si pentì di non aver detto niente per consolarlo, e di aver cominciato a raccontargli delle sciocchezze sulle sue esplorazioni. Dovrò chiedergli scusa per questo, domani, si disse.

"Il bambino con il pigiama a righe" è in definitiva un romanzo forte e commovente, che racconta di un'amicizia impensabile, pura e priva di qualsiasi colpevolezza, che nasce, come un fiore in un deserto, in un contesto che vede solo vittime e carnefici.
Pur essendo abbastanza moderno, è uno di quei libri che, in poco tempo, ha raggiunto quasi la fama di un classico, e a ragione direi.
L'opera di Boyne merita di essere letta almeno una volta nella vita, proprio perché capace, nella sua semplicità, di coinvolgere pienamente e far immedesimare nella lettura.
Inoltre, nella nuova edizione targata Rizzoli, e illustrata dall'artista Oliver Jeffers, la narrazione è arricchita da disegni che, senza snaturare la storia, ne danno un valore aggiunto, grazie alla loro essenzialità.
Jeffers difatti ha scelto, e non a torto, di raccontare dal suo punto di vista gli eventi con pochi e semplici tratti, rinunciando ai dettagli più macabri ed impressionanti, sostituendoli con pennellate di rosso ed espressioni del viso più esplicite di qualsiasi sparo o tortura.
Pochi schizzi delicati e pungenti per un racconto che non ha bisogno di parole, che dice molto anche con i suoi silenzi.

Considerazioni:
Conoscevo grossomodo la storia grazie alla famosa trasposizione cinematografica che, per quanto ben fatta, non credo renda giustizia al romanzo.
La bellezza della penna di John Boyne, come dicevo prima, non sta tanto nella scrittura in sé, ma nel candore e nell'eccessiva fiducia che trasmette mediante il personaggio di Bruno che va, puntualmente a scontrarsi con la barbarie dell'effettiva realtà. Non si può non voler bene a quell'ingenuo bambino che non riesce davvero a comprendere il perché di un reticolato che divide i bambini e non permette loro di giocare assieme.
Tuttavia, nonostante mi sia affezionata molto a Bruno, devo ammettere che il suo modo di fare, in particolare con Shmuel, mi ha lasciato spesso perplessa e, talvolta, addirittura infastidita.
Più di una volta il tedesco nota l'eccessiva magrezza dell'amico, che per di più gli confessa di morire di fame, eppure non solo non colpevolizza mai il padre per lo stato impietoso in cui versa il piccolo ebreo, ma anzi, spesso e volentieri finisce per mangiarsi per strada lo spuntino a lui destinato.
Lo vede piangere, osserva inequivocabili segni viola sul suo viso, ma finge che lui stia bene e trascorra il tempo a giocare con gli altri e fare picnic all'aperto. Arriva addirittura ad invidiarlo!

«Quando il treno finalmente si è fermato» continuò Shmuel «eravamo tutti in un posto freddo e abbiamo dovuto camminare fino a qui.» 
«Noi siamo venuti in macchina» disse Bruno, a voce alta, questa volta. 
«E la mamma è stata portata via e ci hanno sistemato nelle baracche, laggiù, ed è lì che viviamo da allora.» 
Shmuel sembrava molto triste mentre raccontava questa storia, e Bruno non ne capiva la ragione; non gli sembrava una così terribile, e dopotutto quasi lo stesso era capitato a lui. 
«Ci sono molti altri bambini lì?» domandò Bruno. 
«Centinaia» disse Shmuel. Bruno sgranò gli occhi.
«Centinaia?» disse stupito. 
«Non è giusto. Non c'è nessuno con cui giocare da questa parte della rete. Proprio nessuno.» «Noi non giochiamo» disse Shmuel. 
«Non giocate? E perché?»

Capisco all'inizio, ma come è possibile che in un anno di continui incontri e conversazioni, lui ancora non riesca ancora a percepire il dolore di Shmuel?
Come fa a considerare se stesso una vittima del destino avverso (per via dell'abbandono della casa di Berlino) e contestualmente a prendere così alla leggera la prigionia del polacco e tutti i suoi angoscianti aneddoti della vita nel ghetto o nel campo?
Mah. Francamente ho trovato un po' fuori luogo questo atteggiamento, soprattutto in considerazione del fatto che persiste fino al triste epilogo finale.
Ed anche allora, per quanto sia percepibile l'affetto sincero nei confronti del coetaneo, Bruno manca di sensibilità, in quanto sperimentando concretamente l'orrore del campo di sterminio, pensa solo ad un modo per tornarsene a casa il prima possibile, ignorando bellamente il tragico destino dell'amico, che sarebbe rimasto lì a patire.
Shmuel, al contrario, è il personaggio positivo del libro. Sopporta l'insopportabile con coraggio e dignità, non si lamenta mai, non parla più del dovuto, non piange, se non in rare occasioni. Vuole bene a Bruno e, proprio per questo motivo, evita di ferirlo, e gli perdona l'imperdonabile.
Non sprecherò parole per il tenente Kotler o per il Comandante, perché i colpevoli di un gioco al massacro non meritano neanche questo, ma vorrei dire due cose sulla nonna di Bruno, una delle figure migliori di questo libro, che avrebbe meritato più spazio.
La donna, quando viene a sapere della promozione del figlio, del suo nuovo ruolo di Comandante, e dei criminosi progetti di Hitler, si vergogna di lui. Lei, con coraggio, sceglie di opporsi a quel regime di discriminazione e morte, rinunciando ai lussi e agli onori di una posizione privilegiata.
La mamma e la sorella di Bruno, Gretel, hanno invece un comportamento non del tutto decifrabile. Sembrano riluttanti di fronte a ciò che sta accadendo, eppure non si capisce fino in fondo quanto il loro dissenso sia imputabile alla sacrificante condizione di vita cui sono costrette loro, o all'orrore che vedono dinnanzi agli occhi quotidianamente e che non riescono più a sopportare. In sostanza paiono non condividere pienamente le direttive del Fuhrer, ma ciononostante non considerano minimamente l'idea di fare a meno del loro status o di mettere in difficoltà, o meglio in serio pericolo, il Comandante.

Alla fine Bruno e Gretel videro centinaia di persone laggiù, ma le baracche erano così tante e il campo così sterminato che i due fratelli conclusero che le persone, là fuori, dovessero essere migliaia. 
«E vivono tutte vicino a noi» disse Gretel, disgustata. 
«A Berlino c'erano soltanto sei case nella nostra bella via, così tranquilla. E adesso guarda quante baracche. Perché papà ha accettato un nuovo lavoro in un posto così brutto? E con tutti questi vicini. Non riesco proprio a capire.» 
«Guarda lì» disse Bruno, e Gretel, seguendo il dito del fratello, vide in lontananza un gruppo di bambini di tutte le età uscire da una baracca. Dovevano avere dai tre ai quattordici anni e stavano tutti rannicchiati uno contro l'altro mentre un manipolo di soldati urlava contro di loro. E più i soldati urlavano, più i bambini si rannicchiavano impauriti, finché un soldato si scagliò contro di loro, separandoli. E finalmente sembrò che facessero come desiderava il soldato: si disposero diritti in un'unica fila. E allora tutti gli altri soldati cominciarono a ridere e ad applaudire. 
«Staranno provando qualcosa» suggerì Gretel, fingendo di notare che alcuni bambini, anche tra i più grandi, quelli della sua età, avevano l'aria di piangere.

Il finale del libro, che molti di voi conosceranno di certo, sarebbe potuto essere più drammatico, sicuramente (è meno esplicito rispetto al film), eppure l'autore sceglie volutamente di non descrivere la morte dei due bambini, e credo sia giusto così.
Focalizza l'attenzione sulla loro unione, sul gesto di tenersi per mano nel momento di paura, sul loro affetto, piuttosto che su ciò che sta per avvenire.
Una piccola azione, seppur significativa, che sta ad indicare come due nemici (sulla carta) siano stati capaci di andare oltre le differenze, di costruire un ponte dove i grandi avevano costruito barriere. Di morire assieme pur di non essere divisi.

Ringrazio la casa editrice Rizzoli per averci fornito una copia cartacea di questo romanzo 

il mio voto per questo libro

1 commento:

  1. Io ho visto il film, è straziante! Non avevo alcuna voglia di leggere il libro ... ora però la tua recensione mi ha dato da pensare, magari tento di leggere anche il libro

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